Un programma di Gabriella Caramore, a cura di Paola Tagliolini, in redazione e in regia Antonella Borghi, consulenza musicale di Cristiana Munzi.
Uomini e Profeti: i padri del deserto
Gabriella Caramore. Una buona giornata da Gabriella Caramore. Siamo particolarmente contenti per la risposta che avete dato alla puntata con Paolo De Benedetti la settimana scorsa. È stato e continua ad essere un grande dono quello di aver incontrato persone come Paolo De Benedetti, con la sua forza di pensiero, con la sua tenerezza verso le creature. Figure che sono un po’ al margine della cultura italiana più mediatica e che invece si trovano al centro di una sottile rivoluzione del pensiero teologico; un pensiero dubbioso e fermo, un pensiero che cerca ma che osa l’interpretazione, un pensiero che non teme di guardare oltre i propri confini. Oggi raccogliamo l’indicazione di De Benedetti della scorsa puntata relativa ai padri del deserto e alla loro familiarità con gli animali che, diceva De Benedetti, è stata più avanzata, nel senso di una “vicinanza creaturale”, rispetto a quanto ha espresso il pensiero cristiano venuto dopo. Di questi padri del deserto parleremo stamattina, e ne parliamo con uno studioso di questo mondo orientale dei primi secoli della nostra era, Sabino Chialà, monaco della comunità di Bose a Ostuni. Buongiorno Chialà.
Sabino Chialà. Buongiorno e buona domenica a tutti.
G.C. A Ostuni voi avete una piccola fraternità, in quanti siete?
S.C. Siamo in cinque fratelli.
G.C. In cinque a fare il “lavoro del monaco”, quindi la vostra vita si svolge nello studio e nel lavoro nei campi.
S.C. Lavoro agricolo e anche altri lavori che sono però strettamente legati al mondo dell’agricoltura: abbiamo un uliveto dove produciamo olio da grandi ulivi secolari. C’è chi dice che siano addirittura millenari.
G.C. Come si vive in questo momento ad Ostuni, c’è un momento di pace invernale?
S.C. Adesso sì, dopo il periodo natalizio che è stato un po’ più movimentato, adesso inizia un periodo un po’ più tranquillo, anche se la natura adesso è in rigoglio, perché adesso comincia la primavera, e i primi alberi iniziano già a muoversi e tra un po’ vedremo i mandorli in fiore.
G.C. I padri del deserto, ne abbiamo accennato varie volte, ma oggi cerchiamo di mettere queste figure del tutto a fuoco: chi sono i padri del deserto?
S.C. È un termine che indica delle figure monastiche che hanno trascorso la loro vita nell’area egiziana in particolare, ma per estensione vengono racchiusi in questo termine anche i padri della Siria e della Mesopotamia. “Del deserto” perché la loro vita è strettamente legata a questo mondo, che è il deserto lungo il Nilo. In senso tecnico diamo questo nome a quegli autori cui sono attribuiti dei piccoli testi, dei detti, che a volte raccontano delle storie e a volte sono semplicemente parole di sapienza, che in qualche modo nella tradizione monastica hanno avuto il ruolo di “regola”, cioè di testo di riferimento per il nutrimento della vita spirituale ordinaria.
G.C. C’è un’area temporale definita che li racchiude?
S.C. I testi detti dei padri del deserto sono stati raccolti a partire dal V secolo, ma prima c’era una tradizione orale molto importante, quindi il fenomeno dei padri del deserto lo si può far risalire alla fine del terzo secolo. Il V secolo è un periodo drammatico per il monachesimo egiziano: da una parte ci sono sommovimenti geopolitici importanti, con le popolazioni della Mauritania che invadono le valli del Nilo e che costringono molti monaci alla fuga, non dobbiamo dimenticare che ci sono anche questioni interne rilevanti. Da una parte c’è una certa decadenza dello stesso monachesimo che, essendo un organismo vivente, conosce momenti bui per poi rinascere altrove e in altro modo. Ci sono anche tensioni interne al fenomeno monastico egiziano, dovute a visioni teologiche divergenti, come ad esempio quella causata dalla crisi origenista che scoppia intorno all’anno 400, dovuta alla contrapposizione di due orientamenti all’interno dello stesso fenomeno monastico.
G.C. Cosa si intende con “crisi origenista”?
S.C. Si intende la contrapposizione tra due visioni del monachesimo. La prima potremmo dire un po’ più “intellettuale”, legata alla figura di Origene e la seconda un po’ più “popolare”, legata ad altri gruppi che rifiutano l’insegnamento origeniano e che considerano le speculazioni di questo grande padre della Chiesa, che venne definito eretico alcuni secoli dopo, eretiche appunto, non accettabili.
G.C. Dunque “padri del deserto” non solo perché abitavano nelle aeree desertiche ma anche perché si allontanavano dai centri abitati e si rifugiavano in luoghi separati.
S.C. Sì, luoghi appartati. Il monachesimo si identifica sempre con questa sorta di marginalità rispetto al luogo della vita “concreta”. Anche se è una marginalità relativa, poiché i rapporti con il mondo abitato restano saldi e sono vari: come accade con i pellegrini che visitano e frequentano questi monasteri. Non dimentichiamo che nella vita monastica l’ospitalità è fondamentale, anzi, è “l’esperienza evangelica” per eccellenza, perché più volte nei testi monastici troviamo questa sorta di prova che viene richiesta al monaco dell’autenticità della sua esperienza professionale nell’accoglienza che riserva all’ospite. Se quella vita monastica è autentica, lo si dimostra nella capacità di mettere da parte qualsiasi genere di regola e di rinunciare alla propria marginalità nel momento in cui arriva l’ospite. E anche il concetto di “deserto” è un concetto vario, non è solo un deserto fisico. Ad esempio in un’esperienza monastica come quella della Siria non c’è un deserto come in Egitto, non ci sono queste estensioni di terra desolata e il deserto, quindi la distanza fra il monaco e la vita concreta, lì la si crea con altri strumenti, con altre forme. Forme a volta anche bizzarre, infatti nel monachesimo siriaco si vedono questi uomini che salgono su delle colonne, o dei monaci che si chiudono all’interno di piccole celle, o ancora i vendriti che vivono su di un tronco d’albero. Ecco, tutte queste forme non sono nient’altro che la riproposizione con altri strumenti del deserto, laddove il deserto non c’è.
G.C. Lei ha nominato l’Egitto, la Siria, ma quali sono gli altri paesi in cui si è verificato questo fenomeno?
S.C. Un tempo si diceva che la patria del monachesimo fosse esclusivamente l’Egitto e che da lì sia partito tutto. In realtà questa tesi è stata poi rettificata da studi più recenti che individuano almeno due aeree in cui nacque il monachesimo: l’Egitto e la Siria. A partire da questi due luoghi questo fenomeno si estende in Occidente attraverso l’esperienza di alcuni monaci occidentali che vivono in Egitto o in Siria e che poi trasmettono all’Occidente la loro esperienza, o attraverso scritti come La vita di Antonio che viene tradotto in latino e che arriva in Occidente. Ma anche in Etiopia attraverso il mondo egiziano, in Georgia attraverso il mondo siriaco e in Mesopotamia attraverso la via della seta a partire dal VI secolo. Si formano comunità monastiche fino al Tibet e alla Cina. E verso l’alto, verso il nord, anche il mondo slavo, grazie al mondo greco dell’Asia Minore, conoscerà il monachesimo per irradiazione qualche secolo dopo.
G.C. I luoghi d’origine di questo fenomeno sono tutte aree oggi attraversate da violenze, soprattutto nei confronti delle comunità cristiane. Voglio segnalare il numero di questo mese della rivista ‘Jesus’, che dedica dei lunghi servizi al medioriente, il cui titolo è Eclissi del cristianesimo? Che cosa possiamo dire su questo argomento?
S.C. Già a partire dall’invasione dei Mongoli nel quattordicesimo secolo questo cristianesimo mediorientale entra in crisi, e sono secoli che continuiamo a dire “il cristianesimo è destinato a scomparire”. È un cristianesimo che vive grandi difficoltà perché inserito in una società che sta attraversando un travaglio enorme e gli elementi più deboli sono quelli che soffrono di più e in questo caso la loro diversità rispetto al mondo culturale maggioritario gioca a loro sfavore, ovviamente. Io però non direi che il cristianesimo, o il monachesimo, scomparirà dopo questa ondata di persecuzioni e di difficoltà. Penso ad esempio a un interessante fenomeno attuale che è quello della penisola arabica dove il cristianesimo, che pure ha avuto un suo sviluppo nel VI e VII secolo, era scomparso e dove adesso sta ritornando, anche se in forme particolari. Quindi quello che oggi stiamo vedendo in Siria, che a mio avviso fino a tre anni fa era assolutamente impensabile, ci lascia perplessi e ci invita a porci queste domande, però sono domande alle quali francamente è molto difficile rispondere.
G.C. Ci interessa molto la vita di questi padri del deserto e ci sono ancora molte cose da dire. Prima però vorrei parlare dei volumi pubblicati dalla vostra casa editrice, Qiqajon, di cui parleremo più avanti perché quest’anno compie trent’anni di lungo cammino e di moltissimi volumi pubblicati. È uscito proprio in questi giorni una raccolta di detti, I padri del deserto, curata da Luigi D’Ayala Valva che è un vostro confratello e un’altra raccolta, Detti editi e inediti dei padri del deserto, curata da Lisa Cremaschi e Sabino Chialà. Che cosa raccontano questi libri?
S.C. Raccontano dell’esperienza di questi monaci e monache, perché ci sono anche delle donne all’interno di questa tradizione, dei quali sono state raccolte prima oralmente e poi messe per iscritto delle parole di sapienza o delle piccole esperienze, dei momenti della loro esistenza, e sono stati ritenuti importanti per poter trasmettere alle future generazione l’essenza della vita monastica, che in fondo è così originale, anche rispetto alla vita cristiana tout court. Questi detti sono stati raccolti e messi per iscritto proprio perché si temeva la loro scomparsa con la morte delle generazioni di discepoli di questi grandi padri. Sono stati raccolti in maniera sistematica, e in più, questi testi sono stati pian piano tradotti anche in altre lingue, soprattutto orientali, e sono stati ampliati, sono divenuti cioè dei corpora vivi, nel senso che chi li ha tradotti si è sentito anche autorizzato ad aggiungere qualcosa o a trasformare questi scritti.
G.C.. La cosa interessante di questi detti è che, lei ha usato giustamente la parola sapienza, hanno questo tono sapienzale che in qualche misura li avvicina anche ad altre sapienze. Se leggiamo una storiella zen e una storia dei padri del deserto sono evidentemente diverse, però c’è questo senso dell’esperienza viva che viene raccontata, che non c’è ad esempio nei padri della chiesa.
S.C. Sono storie molto semplici e in questo risiede la loro originalità. Il messaggio di un detto dei padri del deserto è immediato, anche se ce ne sono alcuni che possono essere letti a vari livelli, e a volte se ne coglie anche una composizione articolata e molto meditata.
G.C. Leggiamo allora una piccola raccolta di questi testi di autori diversi, e verifichiamo quello che stava dicendo ora Sabino Chialà:
«Una volta, alcuni anziani andarono a visitare Abba Antonio, e Abba Giuseppe era con loro. Volendo metterli alla prova, l’anziano propose loro una parola della Scrittura, e partendo dai più giovani cominciò a chiedere: “Che cosa significa questa parola?” Ciascuno parlava secondo le proprie capacità, ma ogni volta l’anziano diceva: “Non hai ancora trovato”. Alla fine chiese ad Abba Giuseppe: “E tu che cosa dici di questa parola?” E quello rispose dicendo: “Non so”. Abba Antonio disse allora: “Abba Giuseppe ha trovato la via perché ha detto: ‘non so’.»
«In un cenobio, vi era un fratello esicasta1 che era continuamente indotto all’ira. Allora disse a sé stesso: “Me ne vado, mi ritiro nella solitudine e se non ho più rapporti con nessuno e vivo nella quiete, la mia passione cesserà”. Partì dunque, e andò ad abitare da solo in una grotta. Un giorno però, avendo riempito d’acqua il boccale, lo posò a terra ed esso subito si rovesciò. Allora lo prese, e lo riempì di nuovo, e di nuovo esso si rovesciò. Poi per la terza volta lo riempì, e quello si rovesciò. Allora infuriato lo afferrò e lo spezzò, ma poi, rientrato in sé, riconobbe che era stato beffato dal demonio, e disse: “Ecco, mi sono ritirato in solitudine e sono stato sconfitto, me ne ritorno dunque al cenobio, perché dappertutto c’è bisogno di lotta, di pazienza e dell’aiuto di Dio”. E levatosi, ritornò al suo cenobio.»
«Un fratello chiese ad Abba Sisoes: “Che debbo fare Abba? Sono caduto”. Gli disse l’anziano: “Rialzati”. Disse il fratello: “Mi sono rialzato e sono caduto di nuovo”. Disse l’anziano: “Rialzati ancora ed ancora”. Disse il fratello: “Ma fino a quando?”. Rispose l’anziano: “Finché tu sia preso. Nel bene o nella caduta. L’uomo infatti progredisce nello stato in cui si trova».
G.C. Questa piccola scelta illustra quanto lei stava dicendo prima.
S.C. Tre esempi in cui il messaggio evidente che viene dato all’interlocutore e al lettore è chiaro. Ad esempio il primo è un testo in cui la sapienza si manifesta attraverso colui che riconosce di non essere arrivato, colui che non si accontenta di ciò che conosce, e dunque la sapienza vista come l’esperienza di chi cerca. Il secondo testo, in cui si mette in evidenza come ciò che noi viviamo come tensione, anche nei nostri rapporti interpersonali, nasce da una tensione interiore, dunque qui c’è il problema del rapporto tra l’interiorità e l’esteriorità, e allora la vera pacificazione con gli altri e con il mondo esterno, come dicevano i padri, nasce da una pacificazione con sé stessi. Isacco di Ninive diceva: «Riconciliati con te nella Triade che è dentro di te, corpo, anima e spirito e tutto il mondo sarà in pace con te». Il terzo testo invece parla del cadere e rialzarsi nella nostra vita quotidiana. La particolarità di questi testi è che il loro messaggio non viene trasmesso attraverso una meditazione filosofica articolata ma attraverso un piccolo esempio, un’esemplificazione direi elementare, in cui il lettore non può non cogliere immediatamente il nocciolo della questione in modo semplice e immediato.
G.C. Inoltre quasi tutte queste raccolte sono costruite in maniera tematica, quindi non sono per autore.
S.C. Abbiamo la collezione alfabetica per nome dell’autore ma abbiamo anche quella sistematica in cui i detti sono organizzati a seconda dei temi.
G.C. Quali sono i temi della vita monastica che questi monaci propongono?
S.C. La cella, il silenzio, la lettura, lo studio, il lavoro, il digiuno, le pratiche ascetiche o la conversione per esempio. Vari temi, temi della vita spirituale che vengono scandagliati a partire dai testi di cui questi autori disponevano.
G.C. Leggiamo subito un altro autore che lei ci ha proposto: Abramo di Kashkar, quindi adesso ci trasferiamo nel mondo siriaco. Possiamo dire in sintesi quali sono le caratteristiche del mondo siriaco?
S.C. Nel mondo siriaco il monachesimo si manifesta in una varietà di forme. Prima alludevo ai monaci stiliti, tipici dell’area siriaca, oppure ai monaci reclusi, ma il mondo siriaco ha conosciuto anche dei cenobi particolarissimi, ad esempio dei cenobi in città, quindi dei gruppi di monaci e di monache che vivevano all’interno di un contesto urbano già nel IV secolo. Successivamente il mondo siriaco conosce anche delle forme di vita comune in cui però la maggior parte della settimana era vissuta da questi monaci in solitudine, quindi la vita comune era vissuta concretamente solo il sabato e la domenica. Abramo di Kashkar è una delle figure più importanti del monachesimo siro-orientale. Vissuto a cavallo fra il VI e il VII secolo è considerato il grande riformatore di questo tipo di monachesimo: scrive le regole per il suo monastero, che attualmente si trova nel sud della Turchia, e a questo tipo di monachesimo si ispirerà tutta la tradizione successiva, e quindi i così detti grandi mistici orientali sono il frutto di questo monachesimo.
G.C. Isacco di Ninive è un altro autore che lei ha tradotto e curato ed è forse l’autore di alcuni dei testi più belli. Leggo qui solo un frammento: «Nudo si tuffa in mare il nuotatore, finché non trova la perla. E il monaco sapiente nudo attraversa la creazione per trovare in sé stesso la perla Gesù Cristo. E quando l’ha trovata insieme ad essa non acquista nient’altro, custodisce la perla nelle stanze e la gioia del solitario è nella quiete». Legga lei un altro testo.
S.C. «Come gli occhi del marinaio guardano le stelle, così lo sguardo interiore del solitario insegue in tutta la corsa del suo itinerario quel fine che ha accolto nel suo pensiero quel primo giorno in cui si è consegnato per viaggiare sul mare ostile della quiete, al fine di trovare la perla per la quale si è lanciato nell’inesplorato abisso del mare. E il suo sguardo di attesa rende leggero il vero fardello della pratica ascetica e le difficoltà che incontra con pericolo nel suo itinerario».
G.C. Ecco, il mare ostile della quiete.
S.C. È il mare ostile della fatica della vita monastica. La quiete è ovviamente una cosa positiva, ma è un’esperienza non facile, che si raggiunge attraverso un cammino serio e impegnativo, un cammino ascetico.
G.C. Leggiamo allora qualcosa di Abramo di Kashkar.
S.C. Quello che leggeremo è l’inizio della “regola” di Abramo di Kashkar, in cui si può capire anche come egli intendesse la vita monastica:
«Poiché da quando risediamo in questo luogo i fratelli che abitano qui hanno lavorato, e si sono affaticati scavandosi grotte e costruendosi celle per abitarvi e anche perché è da poco che ci siamo abituati a questa condotta, abbiamo trascurato di stabilire su di noi qualcosa di adatto alla specificità di questa condotta. Ora invece, che per la grazia del Signore nostro abbiamo un po’ di riposo dalla fatica e dal lavoro del corpo, mentre ci troviamo insieme tra di noi, abbiamo pensato di scegliere dalle Divine Scritture e dalle parole dei santi padri qualcosa di adatto alla guarigione delle nostre ferite e alla rimarginazione delle nostre piaghe. Cominciamo dunque da qui, per la forza del Signore nostro, supplicando e implorando quanti si imbatteranno in queste parole, di non pensare della nostra pochezza che noi abbiamo fatto qualcosa da noi stessi. Noi, infatti, non siamo legislatori né per noi stessi né per gli altri, ma siamo servi e sudditi dei comandamenti adorabili del nostro Dio buono. Quindi, ad ogni regola che abbiamo estratto dalle Sante Scritture e dalle parole dei santi padri, abbiamo aggiunto solo brevi esplicitazioni che la riguardano.»
S.C. Qui c’è un tentativo di spiegare: “che cos’è, in fondo, questa strada?” La via monastica per questo autore non è nient’altro che una via di conversione. Il detto precedente che abbiamo letto, “cadiamo e ci rialziamo”, è il senso della vita cristiana, il senso della vita tout court e della vita monastica in particolare, che quindi non viene vista, come a volte viene definita, una via di perfezione al di sopra delle difficoltà umane, ma è semplicemente un cammino di guarigione per le ferite di quegli uomini che hanno visto in quel cammino un percorso verso la via di guarigione. La regola è poi concepita semplicemente come una lettura delle Scritture e delle parole dei padri che restano comunque le fonti della vita monastica e della vita cristiana in generale, applicata ad un’esperienza di vita particolare. Quindi la regola non è una legislazione, ma l’eco del Vangelo che viene recepito da un’esperienza particolare che questo gruppo di uomini, confrontandosi con il loro cammino, cerca di immaginare. La regola inoltre non precede la comunità. Innanzitutto chi parla è una persona plurale, non è un’unica persona, anche se la regola viene attribuita ad Abramo di Kashkar, è un’intera comunità che sta parlando, che ha stabilito una regola e ci dicono che è stata stabilita dopo che costoro hanno lavorato e vissuto insieme e hanno cominciato a capire di che cosa avessero bisogno. Quindi la regola è una risposta all’esperienza, non precede l’esperienza, che resta quindi un fattore fondamentale.
G.C. C’è anche un capitolo relativo alle donne perché, come lei diceva, non ci sono soltanto i monaci, ci sono anche le monache. Ci sono quindi donne di grande rilievo.
S.C. Certamente, come Macrina, sorella di Basilio, grande padre della Chiesa e grande monaco per l’Asia Minore o Sincletica per l’area egiziana. Ma direi che quasi tutti i fenomeni monastici sono nati come fenomeni in cui all’elemento maschile si è accostato fin da subito un elemento femminile. Si prenda l’esempio in Egitto di Pacomio e di sua sorella Maria, o Benedetto e Scolastica in Occidente.
G.C. Quindi voi, che siete un monastero di uomini e donne, rispettate fedelmente gli esempi dei primi secoli.
S.C. Non abbiamo inventato nulla.
G.C. Tra le vostre sorelle, Lisa Cremaschi ha seguito molto questo filone, curando anche il volume Donne di comunione, sulle vite delle donne che hanno fatto parte di questo monachesimo. Queste vite però non sono raccontate da loro stesse.
S.C. No. Per chiari motivi storici e culturali queste storie, e anche le prime regole rivolte alle monache, sono scritte da monaci. Ma in Oriente ci sono anche figure di donne che sono all’origine di un’esperienza monastica maschile e nei sinodi della chiesa siro-orientale spesso si incitano le abadesse dei monasteri femminili a spiegare la scrittura alle loro sorelle. Questo non è un fatto comune, cioè che delle donne siano considerate in grado di considerare la scrittura.
G.C. Adesso invece vorrei parlare dei libri pubblicati dalla vostra casa editrice, la Qiqajon. Leggendo prima un breve detto dei padri del deserto che dice: «Un anziano disse: “I profeti hanno scritto i libri, poi sono venuti i nostri padri e li hanno messi in pratica. Quelli dopo di loro li hanno imparati a memoria. Infine è venuta questa generazione, che li ha copiati e li ha riposti inutilizzati sulle mensole». Voi sicuramente non avete fatto ciò e allora parliamo anche con Guido Dotti, che dirige appunto la Qiqajon. Buongiorno fratel Guido.
Guido Dotti. Buongiorno a lei e agli ascoltatori.
G.C. La vostra casa editrice Qiqajon ha compiuto quest’anno trent’anni, un periodo molto lungo, quanti libri sono stati pubblicati?
G.D. Circa 800 titoli.
G.C. Naturalmente c’è la curiosità di capire come sia iniziata la vostra attività editoriale. Penso in maniera molto semplice, elementare.
G.D. Dal momento che alcuni di noi già lavoravano per altre case editrici negli ambiti di interesse di quella che è la comunità monastica, ci siamo chiesti se non valesse la pena dar vita a una piccola casa editrice che avrebbe potuto pubblicare testi non immediatamente recepibili dal mercato o dei testi più di nicchia e nella quale investire le risorse di formazione, di studio e di interesse di fratelli e sorelle della comunità. Ovviamente i primi anni ci siamo limitati a una pubblicazione di tre o quattro titoli all’anno, mentre negli ultimi anni siamo arrivati alla pubblicazione annuale di venti, venticinque volumi all’anno e abbiamo iniziato anche a pubblicare alcuni e-book.
G.C. Come pensate di poter cambiare senza tradire l’origine e la tradizione del vostro lavoro?
G.D. Penso che il problema di fondo sia sempre lo stesso: un editore, e in particolare un editore cristiano, si dovrebbe chiedere che idea, che immagine del cristianesimo, del volto di Gesù e della Chiesa di oggi lui voglia far conoscere attraverso i suoi libri. E l’immagine che noi oggi vorremmo veicolare è quello di un Dio amico degli uomini al punto di essersi fatto uomo. Prestando quindi molta attenzione alla dimensione umana, all’interiorità e alla vita spirituale che sono propri di ogni essere umano, non solo dei cristiani. Questo naturalmente nella prospettiva di quello che è il messaggio evangelico. Quindi alle collane sui commenti biblici se ne sono affiancate altre dedicate ad esempio al rapporto tra la liturgia e la vita, alla preghiera, alla spiritualità dell’Oriente e dell’Occidente. Ad esempio, essendo noi una comunità ecumenica, abbiamo pensato che uno degli elementi dell’ecumenismo quotidiano che noi portiamo avanti è quello di far conoscere i tesori di altre chiese.
G.C. Quali sono i titoli che le è piaciuto trovare, tradurre, pubblicare?
G.D. Ci sono in particolare due autori a cui mi sono affezionato di più: L’uomo che cammina di Bobin Christian e la trilogia di Alexandre Jollien di cui abbiamo appena pubblicato il terzo volume, Abbandonarsi alla vita. L’autore, Alexandre Jollien è un cerebroleso svizzero ricoverato in un istituto per persone con gravi disabilità fino all’età di quattordici anni, in seguito è riuscito a diplomarsi e a laurearsi in filosofia a Friburgo, e ha iniziato a raccontare questa sua “lotta per la vita”, questo desiderio di vita più forte della disabilità. Il suo primo volume è stato L’elogio della debolezza in cui ha immaginato un dialogo tra sé stesso e Socrate in cui spiegava al filosofo greco la sua esperienza di disabile, da bambino prima e da ragazzo dopo, e ha poi approfondito questo tema con un secondo testo, Il mestiere di uomo. Adesso Jollien è felicemente sposato con tre bambini e racconta cos’è che gli ha permesso di andare avanti, questo “lasciarsi andare”, senza prendere troppo sul serio gli affronti, gli insulti, le derisioni e le difficoltà che si possono incontrare nella vita.
G.C. Volevo chiedere anche a Sabino Chialà se c’è qualche testo pubblicato da Qiqajon che lei non conosceva e che le ha fatto conoscere qualcosa di nuovo.
S.C. Devo dire che ho scoperto tutto con la Qiqajon, prima non conoscevo nemmeno l’esistenza dei padri siriaci, quindi per me tutto è stato davvero una grande scoperta. Al di fuori dell’area di cui mi sono occupato, un testo a cui sono particolarmente affezionato è un piccolo libretto di Martin Buber, Il cammino dell’uomo, che continua a riscuotere un grande successo, e anche chi l’ha letto lo rilegge con piacere.
G.C. Guido Dotti, un altro libro importante da voi pubblicato è il diario di Dag Hammarskjöld, Tracce di cammino.
G.D. Sì, è un libro a cui sono molto legato perché è come se mi fosse cresciuto tra le mani. È il diario del segretario generale dell’ONU che morì durante la crisi del Congo nel 1961, Dag Hammarskjöld, che venne insignito del premio Nobel per la pace postumo. La versione di questo diario fu pubblicata all’epoca da Rizzoli, era esaurita e abbiamo voluto riprenderla. Dag Hammarskjöld era un luterano svedese che non aveva mai voluto manifestare la sua pratica cristiana proprio per non intralciare la sua attività di diplomatico, e dalle pagine di questo diario pubblicato dopo la sua morte, emerge invece una sua dimensione più mistica.
G.C. Non le ho chiesto una cosa che forse davo per scontata. Qiqajon, che cosa significa?
G.D. Qiqajon è un termine ebraico che nel libro di Giona indica quella pianticella di ricino che Dio fece crescere per dare a Giona un po’ di ombra, e che si seccò dopo un solo un giorno per dare prova a Giona che bisognava prendersi cura di tutti gli abitanti di Ninive. Quindi quando abbiamo creato la casa editrice ci siamo detti: se riusciamo a dare un po’ di sollievo, un po’ di frescura bene, se dureremo solo un giorno o una settimana pazienza.
G.C. Quindi dare sollievo a chi legge ma allo stesso tempo prendersi cura della pianticella di ricino, quindi bisogna aver cura di queste parole.
G.D. Sì, bisogna aver cura della pianticella di ricino, bisogna aver compassione per gli altri, bisogna in sostanza prendere la vita con leggerezza.
G.C. Bisogna, appunto, cadere e rialzarsi, come abbiamo detto prima.
Ascolta la puntata di ‘Uomini e Profeti’.
- L’esicaismo è una dottrina e pratica ascetica diffusa tra i monaci dell’Oriente cristiano fin dal IV secolo. N.d.R.