Un giorno, fui grandemente ispirato dalla lettura di Howl. Un poema che mi appassionò veramente tanto. Un grido di dolore capace di estendersi oltre i confini della verità, intesa come sostanza primaria per evolversi all’interno di un ciclo vitale dove il tempo sfugge persino alla sua stessa sorte. Ma in realtà era Ginsberg ad appassionarmi; il suo sguardo assomigliava più a una voce che a una destinazione. Così, dopo anni di studi e di ricerche mi sono lanciato in un vortice di sensazioni che poi sono sfociate in maniera del tutto naturale in un poemetto che s’intitola ” ORA NEL TEMPO “. Questo breve componimento ha lo scopo di tracciare all’esterno ( attraverso briciole di versi ), una strada che si è depositata dentro di me moltissimi anni fa. Io li chiamo gli anni della follia: uno sbandamento pericoloso quanto necessario per poter comprendere le reali sfumature della vita. La vita vera, quella che comprende le reali potenzialità della morte attraverso una vita vissuta per intero. Una scrittura libera, in grado di scandagliare i vari spazi vuoti che la nostra anima nel corso del tempo riesce a depositare ai bordi di angoli poco assolati, ma nello stesso tempo, rovistati dalla nostra curiosità e Ginsberg, in tutto questo…era un’anima molto curiosa della vita capace di slanci vitali di grande intensità emotiva. Un Maestro della periferia, in grado di nutrirsi degli aspetti più bui dell’esistenza, tanto da ricavarne ampie fette di poesia condita da una speranza per il giusto, che non è altro che la chiave per la felicità eterna dell’anima.
Ad Allen Ginsberg
Estratto da un poemetto inedito di Fabio Strinati
Le strade mi parlano di te
e di una bottiglia sommersa
di labbra e di linfa;
di come gli occhi annebbiati dal sonno
o giornate scolate in un tombino,
si sono allungate in bustine quando nel temporale
s’alza il fumo grigio del sereno
dove tutto muore e persino il degrado,
che da un puntino seppellito d’inchiostro
vi si nutre perché lento è un fiume…
e piano si scopre alla vita mischiandosi
alla grassa terra con le lapidi del Fante e della Regina,
col suo tempo al mercurio: impastato, informe,
dispiaciuto per la falce
e l’alba che nasce deforme, capelluta
o di bianco o vestita di nero!
Sento incorniciare immagini
in un perimetro iniettato dalle palpebre;
suoni morbosi degli alberi ingrigiti
come foglie albine e lontane
immortalate lungo viali soli e abbandonati,
sopra vecchi muri lucertole imperlate
di un sole che spella; cartoline ingiallite
e poche gocce dell’ultima pioggia
racchiusa e una marea, dove i pescivendoli
usano remi sfatti per non dimenticare il mare
come muta che non smonta la sua gloria;
che sugli scogli li trattiene in una metamorfosi
di onde miscelate col pensiero di una eco
sigillata in un flacone da galera,
ammorbato col nervo del malato
che nella perversione dell’istante si serve
di una scoria da soffitto
ammalata in un cervello travestito da folletto.
Le strade mi indicano luoghi incrostati
e pieni di tramontana affogata in un bicchiere
colmo di segatura a mucchi; strade di nafta
che impuzzoliscono la storia
attraverso scampoli di noia e di cemento,
in uno scolo imbevuto di sintetica droga e nicotina…
in un pozzo scavato con la vanga debuttante
” a far sparir la roba “, pieno di vecchi materassi
saturi di sonno e di vecchie e tormentate storie;
un topo fatiscente che osserva a folate
una vita che spenta scompare negli angoli
in sobborghi unti dove nessuno lo attende…
e quel passero inerme, sopra un vecchio tronco
inselvatichito dagli ortaggi della morte,
prigioniero della sorte che non s’arrende mai,
al tozzo di pane rinsecchito dallo strozzinaggio.
Penso al motore sbronzo del cuore
che strilla nella canna del ciclope;
ingranaggio ammucchiato nei fili dell’elettricismo,
eccitato, si gonfia dentro a un foro di cartone
fino a dargli fuoco con lo schizzo
del proiettile…,
ora,
sento le anime dei morti fra i vicoli bui:
cerco la strada del ricordo,
per non morire solo di una noia che stanca.
Nottate lunghe come trincee.
Lamenti che possiedono colori feriti
da voci che rantolano nel vuoto,
e quello spiffero delle maree,
un sonnambulo
che si muove sperduto oltre le pareti
pietose di un’ombra
che del buio si disarma;
un’arma che scivola via
col treno imbevuto d’argento, senza biglietto obliterato
perché dimenticato sul telescopio dell’ossigeno:
ora,
avverto le anime che sottovoce cantano
di eternità col fazzoletto in mano
falsato dall’abbietto vino della confusione.
Sento spesso lo squallore
affossarsi nelle vene come trame intessute
nella morsa di un’obbedienza
sbandata e catturata da un arpione.
Sento un ricordo che mi sfugge
perché obbligato a marcire
in gennaio ch’è mese funebre e cimiteriale,
una spilla conficcata nel cervello
che si serve del suo stesso tempo
per avventurarsi nelle lande in fiamme
di un magazzino stracolmo
per pastiglie da piccioni.
Sento pure canticchiare un tamburo,
che assomiglia a un orologio senza fiato,
un cimelio arrotolato in un tubo
per idioti, un sentore tatuato nel torace
che mi graffia la pelle
scorticandola nel sensore del miocardio.
Penso alle poetiche visioni incorporate
nello specchio grondante umori
sull’autostrada delle vergini intossicate
da maniaci con in mano pietre, sassi e bastoni.
Ricordo la vergogna dell’orfanotrofio.
L’odore dei manicomi col filo spinato,
gli alveari che si nutrono di vita
per rinsavire genocidi
processati in un palmo di mano.
E ora,
quel frequente
ansimare sui loro volti che son morti
insieme allo sniffare di una processione,
che per esibizione denigra
l’alfabeto perché visto come spettro
di un quaderno stuprato
da una cattedra
priva di rancore…con sul comodino
quell’olfatto mangiatore di pastiglie.
Quell’odore della notte
capace di azzannar la gola sulla giugulare,
di aprir la porta e di azzerarla
con la ruspa della cancellina
tra un filare e l’altro
di un’uva sepolcrale fra le rime.
Ogni strada mi racconta di te,
della tua storia che in una rete da pescatore
s’è incagliata rovistando fondali
fin troppo malmessi
a causa di una pleura in evaporazione.
Ogni mollusco è quieto nella sua cuccetta
da cane bastonato! Ogni ricordo
è strabico e perfettamente in fuga,
ma ho di te quel versetto
che sotto tortura m’ha rovistato
il lenzuolo tracciando
morfina allo stato puro, e stolta,
s’interra nel mio continuo sogno
che della vita, s’è invaghito
come sull’uscio la firma senza nome
di una denudata donna.
Percepisco tintinnare
quei tuoi versi al gusto della tromba.
Quel tuo modo a volte buffo…
di esprimere la voglia: nottate sparigliate
a casaccio dentro una cuccuma
appena svuotata dal guardiano della memoria;
materia grigia sparpagliata
tra vecchi libri e un respiro che sulla soglia
s’immola per un bronco
che inciampa all’ultimo gradino di una scala
da anni pedinata.
E ora,
nel tempo si ramificano pensieri
che come radici attecchiscono
in una sveglia che ipnotizza
persino una larva di metallo.
Ora,
perfino un servo senza ruote
porterà un dollaro di vino
dentro la tua stiva
che giace
in un campo di copertoni e di ruote
senza la spina dorsale.
Vorrei raccogliere per te,
fiori in uno spasmo
di lampadina intermittente. Vorrei sentirti ancora,
così rauco e sgraziato
quando sul bicchiere adagiato
amavi raccontar le truffe notturne
col cerbiatto in bocca
e una caffettiera al color d’oliva!
E quel vento arrogante,
impolverato di ossa e di paglia.
Una vecchia storia, sotterrata in un letto
di spine senza senso né preghiera;
verrei nella tua tomba
con in mano un portafogli multiuso
e basito succhierei la tua calva parrucca
piena di acari e d’infinita cultura.
Ma ora,
vorrei inghiottire una piuma
e percepire la paura
del soffocamento. Vorrei sentire
quel rogo annegato per una mareggiata,
un vuoto che si dipana ancora
tra le membrana del mio cervello fuso
a causa di una ghigliottina usata
da una lince affusolata, o quella sanguisuga
con la siringa in mano, pronta
ad anestetizzare un imbroglio di matassa
che infame rimane in strada
come macchia d’olio
o bestemmia del midollo.
Sento scorrere lungo la schiena
una pioggia condita con urina
che stride col mio nettare
spremuto dall’ingegno
del mio bulbo oculare. Una follia
che mendica un certo vagabondare…
un costume da battaglia,
un tormento che lentamente striscia
la sua melodia perforante e sciancata;
ma vorrei capire perché uno sguardo
è ignaro quando patimento
viene persuaso sulla gogna o sul patibolo,
condannato per insufficienza di prove.
Un pentimento che rabbuia
quando il biglietto per un moncone di nave
è salpato col timbro della tomba
e un epitaffio martellante, linciato
sul binario di una lapide magra
ch’è in partenza con Caronte: silenzio,
sciame esanime in un cestino per il viaggio
che tuttora m’accompagna,
lungo un tragitto modellato coi fanghi
di un inverno inquieto…
ma relitti in frantumi prendono il largo
come in un lago nel cielo piangono
pupazzi uccisi dalla chimica, ossidati
dai fumi del danaro, pestati a sangue
nelle fattorie col calcio
di un fucile perdonato dallo stemma
di un cancro che infuria…
ma ora,
le sentinelle nel cielo hanno polvere
nelle ossa, guardiani privi di borracce
che girano in giostra coi cingoli al collo
al posto di collane e carburanti;
sulla forca, pelli raggrinzite
si concedono al vizio del momento,
bucando nebbie spesse
col sigaro attaccato alla corrente…
e menti gravide di strani pensieri
che cercano la strada verso il nulla,
lungo piazzole di sosta violentate
da passanti e dinosauri.
Strade incollate
da una pioggia esagonale, che sniffano
tele di ragno perché vecchiaia
nuoce alla salute quando china la testa al tempo,
quando la clessidra è quel boia
sovrappeso nutrito di teste intorbidite da paure
claustrofobiche…
o sporche prigioni impedite,
che alleva vermi da pesca
per fottere il Governo
sulle questue e sul pedaggio;
grilletti usati, abusati dal tempo
che si mostra col fiocco
di una busta paga rubata per amore,
o per onore, disonore che dà ventresche
al dolore di una notte torturata
da un giorno senza luna,
sul cruscotto di un liquore avvinazzato!
Sue poesie sono state tradotte in romeno e in spagnolo.
È il direttore della collana di poesia per Il Foglio Letterario e cura una rubrica poetica dal nome Retroscena, proprio sulla Rivista mensile del Foglio Letterario, dove ogni mese, ospita poeti di fama nazionale ed internazionale.
Strinati è uno studioso dell’olismo, della patafisica, della poesia visiva, sonora, elettronica e concreta.
Ha pubblicato diversi volumi di liriche.