Vivere offre un’arma pericolosa ai detrattori del cinema italiano. Perché il buon cinema italiano esiste, magari va cercato ma esiste. Però non si trova nell’ultimo film di Francesca Archibugi. L’omonima pellicola di Akira Kurosawa non c’entra nulla: Susi è un’insegnante di danza frustrata, il cui marito, Luca, è un giornalista fallito con il quale ha avuto una figlia che soffre d’asma. Entrambi spiantati, vivono grazie ai soldi di un figlio che lui ha avuto da un precedente matrimonio con una donna ricchissima. A scombinare le carte in tavola interviene Mary Ann, ragazza alla pari irlandese.
Insomma, nulla di nuovo sotto l’italico sole: la solita commedia familiare agrodolce destinata a finire nel nulla. Dove ogni scena è prevedibile e ogni personaggio si comporta esattamente come ci aspettiamo, perché Vivere segue fedelmente questo abusato filone cinematografico che invade le nostre sale.
Non che sia la sceneggiatura prevedibile in ogni suo sviluppo il problema centrale del film. A essere sbagliato è proprio tutto ciò che esso dice. Parlare di giusto e sbagliato quando si valuta un’opera è pericoloso, si tratta una categoria di giudizio che bisognerebbe cercare di evitare perché trascende le prerogative di un mezzo espressivo. Non si possono però nemmeno eludere le implicazioni di Vivere, che, di nuovo, sono quelle di tanto cinema nostrano.
Ovviamente, in Vivere ci sono un sacco di tradimenti (di cos’altro vogliamo parlare, no?). Soprattutto Luca è un traditore seriale, ma sono diversi i personaggi discutibili, il cui comportamento durante la storia li qualifica, né più né meno, come infami. Inutile dire che si redimeranno tutti. Anzi, peggio: siccome alla fine sono un po’ tristi, non serve nulla perché il pubblico li perdoni (almeno nelle intenzioni del film, che poi questo avvenga davvero è un altro paio di maniche). Persino l’unico momento che nel finale avrebbe davvero lo scopo di riscattare Luca è, a ben vedere, negativo.
Nel V Canto del Purgatorio si trova questo dittico: «Tu te ne porti di costui l’etterno/Per una lagrimetta ch ‘l mi toglie» (vv. 106-107): sono le parole con le quali un demone si lamenta nei confronti di un angelo, perché grazie al pentimento in punto di morte l’anima di Bonconte da Montefeltro era stata salvata dalla dannazione eterna. Con questa citazione si apriva Accattone di Pasolini, e sembra che Archibugi l’abbia fatta propria. Un po’ troppo letteralmente, però.
Basta davvero così poco per farci dimenticare le malefatte di Luca o di qualche altro personaggio? Alla fine vince la famiglia, quindi si presume di sì. I nostri sono ricongiunti e pace è fatta. Non è mai successo nulla. Tutti felici e contenti. Evviva.
Molto cinema, soprattutto moderno, ha affrontato con grande durezza ma altrettanta intelligenza il tema della famiglia, mettendo a nudo tutto il male che si può annidare sotto il perno culturale della civiltà occidentale. Per restare a Venezia, si pensi al bellissimo Miss Violence. Oppure a Kynodontas, o Il nastro bianco o We Are What We Are o a innumerevoli alti film. Ecco, Vivere in fondo parla delle stesse cose, ma lo sguardo di Archibugi si ferma alla superficie. Non entra mai nei personaggi né nei loro rapporti, non guarda l’aberrazione che si può celare dentro una famiglia. Si ferma ai sintomi, con la colpa aggiuntiva di perdonarli troppo facilmente.
Si potrebbe replicare che Vivere vuole parlare d’altro e che non si è obbligati a mettere in scena ciò che di terribile c’è nelle cose del mondo. Critica legittima, ma che non tiene conto di un dettaglio: Vivere parla proprio di quegli stessi mali. Semplicemente, li giustifica. Tradire il proprio partner, portare all’esasperazione una persona e alla disperazione un’altra, rifiutarsi di denunciare un criminale perché è un parente… sono tutte cose da poco, e figuriamoci se possono essere i prodromi di mali ancora più grandi.
Vivere non è in concorso, per fortuna, perché avrebbe fatto una pessima figura. Ma anche nel vederlo fuori concorso viene da chiedersi perché un festival così importante e di solito così attento abbia pensato valesse la pena ospitare un film che è la fotocopia di altri cento film, dimenticabile nel giro di pochi minuti. E così assolutorio, che è anche peggio. Per fortuna, il cinema italiano è anche tanto altro.