Tutti sono prigionieri nel romanzo di Fernando Aramburu ‘Patria’. Le persone aspirano alla libertà e all’indipendenza e si trovano solamente intrappolati e incarcerati. È il suo anche un romanzo pieno di incidenti e di malattie. Una donna rimane paralizzata dopo un ictus. Qualcuno soffre di incontinenza urinaria. Un altro personaggio deve affrontare una gravidanza indesiderata. Ci vengono segnalati quattro tumori e tre incidenti stradali.
La faccia di un ragazzo viene sfigurata. Un amato gatto viene schiacciato. Un giovane uomo muore per il dolore causato dai calcoli renali. Un altro viene operato di emorroidi.
Tre persone prendono in considerazione l’ipotesi del suicidio, mentre una quarta si spara sul serio. Non sorprende che l’emozione dominante sia la paura; e la qualità più richiesta sia il coraggio. A complicare tutto, c’è la lotta armata per l’indipendenza basca: intimidazioni, percosse, cocktail molotov, omicidi.
Fondamentalmente ‘Patria’ è una saga bifamigliare, che abbraccia gli anni dalla morte di Franco nel 1975 fino a poco prima dell’oggi. La località in cui è ambientato è un villaggio basco senza nome vicino alla città costiera nord-occidentale di Donostia, o San Sebastián come lo chiamano gli spagnoli, città dove è nato Aramburu. Sebbene le date vengano date raramente, la storia si apre nel giorno dell’ottobre 2011, quando l’ETA, il movimento basco armato, separatista e socialista, dichiarò la fine definitiva della sua campagna di violenza, che a quel punto aveva causato più di ottocento vittime negli ultimi quarant’anni.
Il capo di una delle due famiglie, Txato (non viene dato il cognome), è tra quelle vittime; un figlio dell’altra famiglia, Joxe Mari, è membro dell’ETA. La domanda immediatamente sollevata è: la fine della lotta armata può portare alla riconciliazione in una comunità profondamente divisa e in particolare tra queste due famiglie che, sebbene una volta fossero profondamente amiche, alla fine erano diventate acerrime nemiche? In breve: i personaggi possono liberarsi dalla prigione degli eventi passati?
Ci sono più linee narrative nel romanzo. Perché Txato, che non era mai stato coinvolto nella politica, è stato assassinato? Chi l’ha fatto? In che modo la sua morte, negli anni ’90, ha alterato le relazioni tra i membri della sua famiglia e tra la sua famiglia e la comunità nel suo insieme? Perché l’adolescente Joxe Mari si è unito alla lotta armata? E ora che è stato catturato e imprigionato per diversi omicidi, c’è una possibilità per lui di tornare indietro?
Il romanzo procede in un avvincente mosaico, profondamente non cronologico, di 125 capitoli brevi, ciascuno incentrato su uno dei nove membri delle due famiglie in momenti diversi nell’arco di trenta o più anni. Lo stile è rapido, drammatico, colloquiale, e si sposta avanti e indietro tra la terza e la prima persona spesso nello spazio di poche righe. In aggiunta all’immediatezza, Aramburu usa una tecnica per mettere costantemente in discussione ciò che è stato appena affermato: “Txato è arrivato presto in ufficio. Presto? Sì, poco dopo le sei.” “Joxe Mari non si fidava davvero di lui. Perché? Non lo so.”
“Hanno imparato a preparare trappole esplosive e autobombe. Cos’altro?” “ Si aspettava un visitatore? Sì e no.”
Allo stesso modo i personaggi punteggiano spesso i loro discorsi e pensieri con domande: “Stai scherzando?” “Io, un informatore?” “Che cosa sta cercando di fare? Provocarmi? ”Di conseguenza, la voce del narratore si mescola e si fonde con la loro, a volte lasciando poco chiaro chi stia parlando.
Il disorientamento che ne consegue, in particolare nelle pagine iniziali mentre il lettore fatica a fare i conti con i nove nomi insoliti e la traiettoria generale delle loro storie intrecciate, tende a rafforzare il senso che tutti i personaggi condividono, che la vita sia un incidente in attesa accadere, o una serie di incidenti.
Infausti e minacciosi titoli dei capitoli intensificano l’inquietudine: “Muoversi di notte”, “Inondazioni”, “Una scatola di fiamme”, “Il nemico in casa”, “Un po ‘di sfortuna”, “Paura”. Data questa instancabilmente fobica atmosfera, è improbabile che la prospettiva di una lotta armata, per raggiungere la libertà collettiva, si guadagni la simpatia del lettore; la vita è già abbastanza precaria così com’è.
A prima vista potrebbe sembrare che i personaggi principali, tutti baschi, si definiscano in relazione all’agenda nazionalista e socialista dell’ETA. Txato, un imprenditore che gestisce un’azienda di autotrasporti, si sente “più basco di tutti loro messi insieme”, ma si oppone all’estremismo di sinistra dell’ETA e pensa ai suoi membri come a “terroristi”.
I suoi dipendenti più militanti lo considerano non legato alla sua patria quando non sostiene uno sciopero dopo l’assassinio di un leader dell’ETA. La moglie di Txato, Bittori, è politicamente neutrale fino a quando suo marito non viene prima minacciato e poi ucciso. Dopo di che diviene visceralmente anti-ETA, incatenata ad un dolore rabbioso.
Il figlio Xabier, che viene assunto come medico in un ospedale di San Sebastián, ed è un giovane timoroso e sempre in ansia per il benessere della madre, ricalca lo stesso schema. Da adolescente, la figlia più giovane, Nerea, “ha adorato il motto che era sulla bocca di tutti i baschi, quello che potevi leggere su tanti muri: ‘Felice, Combattiva Gioventù’. E felice, combattiva, giovane, ha votato per il partito Herri Batasuna”, il partito dei nazionalisti baschi.
Ma non sa di essere stata spinta a studiare legge nella lontana Saragozza perché suo padre è stato minacciato proprio dall’ETA dopo che si è rifiutato di pagare l’intero importo della “donazione” che l’organizzazione gli ha imposto come basco benestante; e lui è preoccupato che i nazionalisti lo puniscano colpendo sua figlia. Questo è un paragrafo caratteristico del romanzo perchè unisce in esso tutti i membri della famiglia e si muove rapidamente nel tempo verso momenti precedenti e seguenti l’omicidio di Txato:
‘Ora che Nerea era a Saragozza, Txato pensava che la paura non lo avrebbe schiacciato tanto. Ma non lo sapremo mai. Quell’uomo, disse Bittori, fu sepolto in un sudario di segreti. È vero comunque che sembrava meno angosciato dopo che sua figlia fu partita per studiare lontano. E Xabier? Beh, dal momento che non viveva nel villaggio, Txato pensava che egli fosse fuori pericolo.’
Gli scambi all’interno della famiglia sono resi problematici da una mordente paura che gli altri non prendano precauzioni sufficienti o che, per contro, cedano troppo facilmente alle richieste dei seguaci della violenza. Nonostante la loro evidente unità come famiglia, sono costantemente in uno stato di tensione e conflitto.
L’ altra famiglia è guidata da Joxian, vecchio compagno di bicicletta di Txato e amico che avrebbe voluto facesse parte della sua compagnia “se fosse stato più intelligente”. In questa situazione Joxian “esitava, mancava di forza d’animo” e, di conseguenza, ha “uno stipendio di merda” in una fonderia, dove è sottoposto a pressioni di ogni tipo da parte dell’ ETA. Incapace di contrapporsi alla sua esuberante moglie, Miren, ma in realtà a chiunque, si rifugia nella bicicletta, beve e si dedica al giardinaggio, e raramente è presente per offrire una guida ai suoi tre figli. Quando l’ETA da inizio ad una campagna diffamatoria per isolare Txato, Joxian interrompe malvolentieri le relazioni con il suo amico, benchè non abbia alcun entusiasmo per la causa.
Proprio come una volta i loro mariti erano i migliori amici, così, seguendo lo schema impenitente del libro, lo erano le loro mogli:
‘Andavano d’accordo? Benissimo. Erano addirittura intimi. Un sabato loro due potevano andare in un caffè sull’Avenida, e il sabato successivo in una churrería nella Parte Vieja della stessa città. Sempre a San Sebastián comunque. La chiamavano sia San Sebastián che Donostia, il suo nome basco. Non erano rigidi. San Sebastián? Va bene, San Sebastián. Donostia? Va bene, Donostia. Ad un tratto avrebbero cominciato a parlare in basco, poi sarebbero passati allo spagnolo, e poi sarebbero ritornati al basco, così, avanti per tutto il pomeriggio.’
Ma mentre Bittori rispetta Txato, Miren non mostra altro che disprezzo per Joxian, se non altro perché, guadagnando così poco, la condanna a essere costantemente preoccupata per i soldi. Suo figlio maggiore, Joxe Mari, d’altra parte – “un ragazzo sano e robusto affamato come un orso” – è affascinante per la sua virilità giovanile, per la sua abilità sportiva, per il suo evidente coraggio. Inizialmente, Miren si dispera per il suo crescente interesse verso la lotta armata. “È diventato un delinquente”, dice a Bittori, la quale riflette sul fatto che la sua famiglia non era “neanche lontanamente” nazionalista. Tuttavia, una volta che il “mascalzone” è ormai “scivolato nella velenosa dottrina” ed è in fuga dalla polizia, la madre si converte in un’appassionata sostenitrice dell’ETA. Ed è l’inizio della fine della sua relazione con Bittori.
La figlia più grande, Arantxa, è “una ragazza molto carina — secondo sua madre, la più carina della città. Con quel viso, quegli occhi e quella criniera era predestinata ai flirt. “Ma scade nella considerazione di sua madre quando flirta e poi sposa un ragazzo che non parla basco. È il tradimento della loro comunità. Joxe Mari ne è disgustato.
Arantxa si allea con il fratello minore, Gorka, offrendogli libri da leggere e incoraggiandolo ad opporsi al bullismo di Joxe Mari. Il più sensibile e intellettuale Gorka presto “superò Joxe Mari nel suo uso del basco. Legge regolarmente opere letterarie di scrittori in euskaldun [la lingua basca] e dall’età di sedici anni scriveva poesie in basco.” In opposizione alla madre, a Joxe Mari, e all’atmosfera febbrile della lotta nazionalista, Gorka si seppellisce nei libri, guadagnandosi infine il rispetto dei nazionalisti scrivendo e pubblicando in lingua basca. Questo pare metterlo in sintonia con le opinioni dell’autore su ciò che costituisce un comportamento ammirevole e ammirevolmente prudente.
Anche in questa famiglia si litiga incessantemente. Il dono di una torta fatto da un uomo il cui furgone ha colpito il giovane Gorka, rompendogli il naso, diventa fonte di violenti litigi familiari quando pare che qualcuno abbia rubato la prima fetta durante la notte. I tentativi di Gorka di far da paciere “fanno solo arrabbiare di più la famiglia”. La misura in cui il tono emotivo delle due famiglie differisce completamente, è nella veemenza dei loro conflitti. I litigi nella famiglia di Txato sono sconfortevoli e repressi; in quella di Joxian, o forse dovremmo dire in quella di Miren, sono selvaggi, avventati, esplosivi.
Gradualmente, si apprezza il fatto che l’autore non insinua che i personaggi debbano essere compresi in relazione alla causa basca, ma che lo siano come espressioni della paura e del coraggio, della prudenza e dell’ incoscienza, della debolezza e della forza, della sottomissione e dell’ autonomia. Nerea, ad esempio, si mostra forte e indipendente solo nella misura in cui vive negando la reale situazione che la circonda. Quando suo padre viene ucciso, rifiuta di tornare a casa per il funerale e insiste perchè un giovane amico faccia l’amore con lei quella stessa notte. Ma di fronte a una persona morta in un incidente d’auto, lei si spezza.
Suo fratello, Xabier, è estremamente timoroso e cauto, rifiutando un’audace avance sessuale da parte di Arantxa nell’adolescenza (“Sono tutta bagnata”, lo supplica lei) perché le famiglie sono così amiche che teme che il rapporto possa essere incestuoso. Egli legherà la sua intera identità alla malinconia che avvolge l’omicidio di suo padre, al punto da temere di poter mai provare la felicità.
Nell’altra famiglia, Gorka, temendo di essere coinvolto nella lotta nazionalista, sviluppa un suo proprio “Movimento di liberazione personale, il cui obiettivo era limitato ad un solo punto: raggiungere l’indipendenza”. Scoperta la sua omosessualità, sta attento a non dichiararla apertamente per molti anni. Come scrittore, pubblica libri per bambini, dal momento che scrivere per gli adulti potrebbe metterlo in imbarazzo.
Coloro che dimostrano grande coraggio sono affascinanti ma fanno una brutta fine. Txato è orgoglioso del padre che si era opposto a Franco e si è così deciso a resistere all’ETA – “Impareranno chi è Txato” – ma è poco diplomatico, poco saggio. “Saresti vivo oggi se non fossi stato così testa dura”, riflette sua moglie. Joxe Mari è uno spirito spericolato, pericoloso, ma non è in fondo malvagio. Il vero mostro, sembra suggerire Aramburu, è la comunità che chiede la sottomissione agli individui. Lungi dall’essere un’organizzazione in lotta per la libertà, l’ETA è un’organizzazione coercitiva e che costringe in una gabbia la comunità.
Essa distrugge l’impetuoso Joxe Mari e i suoi compagni spietati, tutti morti o incarcerati, in modo così certo come spazza via persone come Txato. La Chiesa cattolica viene mostrata come complice; il sacerdote locale, Don Serapio, che soffre di alitosi, incoraggia la religiosa Miren a pensare al figlio maggiore come a un eroe e alla causa della sua gente come sacra (“Se la nostra lingua scompare … chi pregherà Dio in basco?”), e scoraggia la vedova Bittori dal tornare al villaggio perché la sua presenza sarebbe divisiva. Una comunità unita da una causa e da una fede è una comunità i cui membri possono essere manipolati e controllati.
La figura di Arantxa diventa qui emblematica. Testarda per natura, lei si gode una vivace adolescenza frequentando i ragazzi. Si finge malata per non essere trascinata in una marcia di protesta dell’ETA. Vola a Londra per abortire – all’epoca pratica illegale in Spagna – nascondendolo ai suoi genitori e al fratello birichino Joxe Mari, che, nonostante tutto il suo bullismo e patriottismo, non ha mai fatto sesso, dal momento che la sua fidanzata nazionalista ultra-cattolica non ne voleva neppure sentir parlare.
L’uomo che Arantxa sposa si rivela essere un groviglio di preoccupazioni economiche e di fobie rabbiose, sempre attento ad avvertire i suoi due figli sull’ “atroce panorama di privazioni davanti a loro” e sempre pronto a dire “qualcosa di negativo, di nefasto, di doloroso.” Arantxa smette di vedere la madre per cinque anni dopo che l’ETA fa saltare in aria un loro amico. Insoddisfatta del marito, è però bloccata dalle circostanze economiche, ma alla fine lo abbandona e ritorna dai genitori, solo per subire a quel punto un ictus e di conseguenza cadere in una “sindrome bloccata” (pseudocoma) con conseguente paralisi quasi totale in stato di coscienza.
All’ inizio del romanzo, è una figura patetica che ha appena imparato a comunicare scrivendo con un dito su un iPad. Eppure questa forma estrema di intrappolamento, un evidente corrispondente materiale della condizione psicologica condivisa dalla comunità, la rende pienamente coraggiosa e indipendente. Nella lunga ricerca di una riconciliazione tra le famiglie, lei sarà la suprema facilitatrice, accogliendo Bittori nel villaggio, mettendosi in contatto con Xabier e Nerea e incoraggiando persino Joxe Mari a considerare la possibilità di chiedere perdono a Bittori.
‘Patria’ è una storia densa e abilmente intrecciata, piena di suspense mentre si snoda verso il momento in cui Txato viene assassinato o mentre segue le vite di Joxe Mari e dei suoi compagni dell’ ETA in fuga. Ricco di dettagli nel momento in cui racconta le vite e le abitudini dei suoi personaggi e le loro diverse reazioni alla tragedia, sempre sensibile ai profondi mutamenti negli stati d’animo e nei costumi che alla fine porteranno alla cessazione della lotta armata.
Ciononostante, oltre 580 pagine di stratagemmi manierati e di un’aria generale di ingegnosità didattica sono stancanti, e le sue riconciliazioni in chiusura non sono convincenti. Cercando di mettere insieme presente e passato, Aramburu ci offre ripetutamente Bittori che va al cimitero per conversare a lungo con il marito morto (“Ormai nostra figlia è a Londra … [sebbene] non si sia preoccupata di chiamarmi. Ha chiamato te? “), o Miren che in chiesa supplica e rimprovera il santo patrono locale, Ignazio di Loyola (“Dì con chi stai, con loro o con noi? “). Sia Arantxa che Joxe Mari parlano a lungo con gli specchi, cercando di recuperare il loro passato.
I personaggi minori completano ordinatamente la gamma di posizioni negli spettri della paura-coraggio e della dipendenza-indipendenza. Nerea sposa un uomo che conta sulla libertà totale, convincendola che è OK per lui avere tutte le ragazze che vuole, ma che mostra anche un coraggio spettacolare quando insegue un ladro che ha agguantato la sua borsa a Praga, saltando nelle acque della Moldava per recuperarla quando il ladro la butta via. In carcere Joxe Mari, dopo aver organizzato una “visita intima” con una ragazza che gli ha scritto lettere di ammirazione, scopre finalmente il sesso e “per la prima volta … ebbe la sensazione fisica di avere sprecato la sua giovinezza”.
Gorka vive con un partner, Ramuntxo, la cui devastante paura dell’ex moglie e della giovane esigente figlia è roba da farsa. I sentimenti di calore umano quando le riforme alla legge consentono alla coppia gay di sposarsi e i genitori di Gorka, Joxian e Miren, si presentano inaspettatamente al matrimonio, apparentemente a totale proprio agio con questo sviluppo narrativo, sono benvenuti ma mettono a dura prova la fiducia del lettore.
In generale, la manipolazione di Aramburu della sua gente, il suo uso frequente di espressioni come “Gesù, Maria e Giuseppe” o di “Il ragazzo dalle grandi palle” o le molte, molte parole in basco creano un mondo piuttosto antico, e in definitiva un tono molto paternalistico.
A volte sembra che, anziché le situazioni ambientali, sia l’autore a imprigionare i personaggi, obbligandoli a comportarsi inizialmente alla cieca, poi con grande illuminazione, per adattarsi esattamente agli sviluppi del romanzo.
L’impressione non è aiutata dalla traduzione di Alfred Mac Adam, che oscilla selvaggiamente tra la ricerca di un’ intensità idiomatica nel vernacolo americano (“holy shit,” “son of a bitch,” “motherfucker,” “lowdown, dirty trick”) e le tracce di origine slave della Sintassi spagnola;
(“Lei ha capito subito che quello che era successo … era vero e che non era neppure la cosa peggiore”; “Quando egli aveva rimosso [la cassetta postale] apparve un quadrato del colore che le pareti avevano molto tempo prima, quando Nerea doveva ancora nascere, ed anche il figlio di Miren, quel criminale”)
Una pagina dopo l’altra, ogni distinzione tra il modo in cui i vari personaggi pensano e parlano è sfocata, goffa e bizzarra, come fossero migranti che hanno imparato poche frasi in inglese ed hanno difficoltà a esprimersi (l’autore dell’articolo sta parlando della traduzione in inglese del romanzo).
Verso la fine del romanzo, ingoiando un doppio cognac “per farsi coraggio”, Xabier partecipa a un incontro per le vittime del terrorismo in cui uno scrittore presenta un libro che ha lo scopo, egli dice, “di dipingere il panorama rappresentativo di una società assoggettata al terrore “, e lo fa ponendo ” domande concrete” come questa: “Come fa una persona a sopravvivere dentro di sé al disastro di aver perso un padre, un marito, un fratello in un attentato terroristico?
In che modo una vedova, un orfano, una persona che è rimasta ferita affronta la vita dopo un tale crimine? ”Questo palese intervento autoriale chiarisce, se i lettori fossero ancora in dubbio, cosa pensi Aramburu dell’ETA:“ una manciata di persone armate, con il vergognoso sostegno di una parte della società, [che decide] chi appartenga alla patria e chi dovrebbe invece lasciarla o morire”.
Ma mentre pochi esiterebbero a condannare la strategia del terrore dell’ETA, è curioso che non si dica nulla sulla questione di una comunità che perde il controllo della sua “patria” o che la vede sussistere in una cultura dominante più ampia. Il Paese Basco, principalmente in Spagna ma in parte in Francia, ha circa 2,5 milioni di abitanti, circa la metà dei quali parla Basco, una lingua il cui uso era vietato sotto Franco.
Un sondaggio del 2004 suggeriva che ben il 33 percento dei baschi era favorevole all’ indipendenza e il 31 percento a un rapporto federale con la Spagna. Sebbene queste cifre siano fortemente diminuite da allora, dopo che la regione ha iniziato a ricevere generosi sussidi da Madrid, sembra strano che nel romanzo di Aramburu nessuno dei personaggi più affascinanti esprima simpatia per la situazione basca.
L’unica persona istruita che si dilunga sulle ragioni di una lotta per l’indipendenza di qualunque tipo è l’ “untuoso” settuagenario don Serapio, le cui idee siamo invitati a trattare allo stesso livello della sua alitosi.
Nato a San Sebastián nel 1959, Aramburu ha studiato a Saragozza e ha lasciato la Spagna per la Germania nel 1985 per insegnare spagnolo lì. Forse questa assenza spiega perché il suo romanzo si presenti così frequentemente come uno sforzo di memoria. Lo scrittore Ramón Saizarbitoria, che ha quindici anni più di Aramburu, è stato una presenza costante a San Sebastián, e il suo lungo romanzo Martutene, scritto in basco e pubblicato nel 2012, tratta allo stesso modo lo stato della cultura basca all’indomani della lotta armata
Un romanzo più difficile, meno commerciale del drammatico ‘Patria’, il libro di Saizarbitoria dà al lettore non basco il senso del profondo disorientamento emotivo e del disagio che si raccolgono attorno alla questione dell’appartenenza a una comunità così combattuta. In particolare, uno dei personaggi centrali, Julia, una traduttrice, è la vedova di un combattente dell’ETA che affronta il problema di come parlare del morto con il figlio Zigor, un ragazzo battezzato con il nome di battaglia del padre:
Egli deve essere considerato un guerriero, un martire o un terrorista? Julia “voleva che la violenza cessasse prima che il patriottismo basco fosse completamente rovinato da essa … prima che la società basca diventasse un triste caso di codardia collettiva”. Tuttavia, “dover negare sogni e sentimenti che pensava belli, che facevano parte della sua personalità, solo perché una volta havevano nutrito la follia di alcune persone la ferisce. “
Verso la fine di ‘Patria’, al contrario, sembra semplicemente che non ci sia nessun problema basco, e molto probabilmente che non ci sia mai stato. L’intera lotta sembra sia stata un brutto errore, promosso solo dal male e dall’ ingenuità, sullo stesso piano del bigottismo e della superstizione. L’individuo deve solo emanciparsi e godere delle libertà offerte da un mondo in rapida globalizzazione. Forse leggendolo nell’originale spagnolo, per lettori che sono più coscienti degli eventi di cui parla Aramburu e che hanno esperienza del suo stile di scrivere in un modo diverso, non è così.
Nella traduzione inglese, tuttavia, sembra che qualsiasi politica basata sull’identità comunitaria debba essere liquidata come anacronistica, una posizione però energicamente smentita dai numerosi movimenti di indipendenza che sfidano lo status quo europeo, dalla Scozia al nord, alla Catalogna al sud, per non parlare della generale enfasi data alle identità nazionali in tutto il continente in opposizione ad un’Unione europea amorfa e sotto assedio. Mi parrebbe poco saggio non prendere sul serio questi sentimenti.