Roberto Quagliano è autore di testi, sceneggiatura e regia.
Giulia De Florio, Giovanna Buonanno, Annamaria Contini del dipartimento di lingue e letterature straniere dell’Università di Modena e Reggio Emilia hanno curato la supervisione scientifica dei testi.
Il progetto riprende l’esperienza fatta da Radio RAI con le interviste ai grandi scrittori e personaggi del passato.
Questa versione televisiva di quella esperienza si dedica a sei scrittori che la serie radiofonica non trattò:
Emily Brontë (1818-48), Lev Tolstoj (1828- 1910), Arthur Conan Doyle (1859-1930), Marcel Proust (1871-1922), Jack London (1876-1916), Ernest Hemingway (1899-1961).
L’intervista agli scrittori sopra menzionati è ricostruita come fosse una intervista televisiva spiata da una telecamera nascosta.
Il taglio ricalca in parte quanto già fatto con le interviste impossibili di Radio RAI scritte dai grandi scrittori italiani attivi all’epoca della realizzazione della serie radiofonica negli anni ’70 del novecento. E quindi Eco, Calvino, Ceronetti, Manganelli, Arbasino e i numerosi altri che hanno contribuito a rendere così famosa quella serie. La nostra versione in larga parte si è basata sui nuovi spunti critici, sia sull’opera che sulla vita degli stessi autori, apparsi negli articoli della ‘New York Review of Books’ di cui noi, come Kamel Film, pubblichiamo questa versione ridotta in italiano. Nell’immaginario dialogo fra l’intervistatore e lo scrittore si ripercorrono sia le esperienze di vita, spesso movimentate e avventurose, sia la poetica. Poetica considerata di per sé stessa e in relazione agli avvenimenti storici contemporanei alla vita dello scrittore. Quindi i movimenti artistici a cui essi si sono contrapposti o a cui hanno aderito e in generale l’esperienza come artisti in relazione al clima culturale che hanno condiviso durante la loro vita.
Una parte delle interviste è dedicata alla ipotetica interpretazione delle tematiche del presente viste attraverso gli occhi di questi grandi del passato. Molte tematiche del presente furono parte del bagaglio intellettuale di tutti loro e già allora da essi furono posti temi ‘moderni’, a noi contemporanei, con un approccio di sfida nei confronti della cultura egemone nella società in cui vissero.
Int.: chi è Tolstoj? La sua complessa personalità ha fatto riflettere le migliori menti del novecento e spesso senza che potessero arrivare a risultati definitivi
T.: Chi sono io? Uno dei quattro figli di un tenente colonnello in pensione, rimasto orfano a nove anni, allevato dalle zie e da estranei e che, senza aver ricevuto alcuna educazione mondana o intellettuale, a diciassette anni è entrato nel mondo
Int.: come vi è entrato?
T.: in maniera disordinata, detestabilmente disordinata e tempestosa… eravamo piccoli quando rimanemmo orfani e dopo qualche anno, quando morì anche la zia cui eravamo stati affidati nella nostra casa di Jàsnaja Poljàna, fummo mandati a Kazan, dove viveva un’altra zia. Trascorremmo lì sei anni… mi iscrissi all’università, ma non la finii.
Int.: in maniera detestabilmente disordinata?
T.: beh, sì! Passavo le serate tra feste e spettacoli… e al gioco d’azzardo, dove perdevo spesso grosse somme. Per fortuna cominciai almeno a leggere, mi interessava la filosofia. Mi appassionai all’opera di Jean-Jacques Rousseau… che fu fondamentale per me… alcuni momenti vissuti a Kazan li inserii poi nelle mie opere.
Int.: di quella dissoluzione fecero parte anche le donne, così ben ritratte nelle sue opere successive?
T.: le donne sono sempre state presenti nella mia vita… in maniera sia positiva che negativa… sentivo forte il desiderio nei loro confronti… una cosa con cui ho lottato per tutta la vita… a Kazan mi divertiva frequentare l’Istituto Rodionovskij delle Nobili Fanciulle dove studiava mia sorella. L’Istituto era ben frequentato dalle fanciulle della nobiltà russa…
Int.: risulta dalle cronache che facesse visita alla signora Rodionova, la direttrice. Un caffè e due chiacchiere con l’anziana signora: era questo l’obiettivo?
T.: sì certo! Frequentai comunque anche la vita culturale della città. C’era un attore che non potevo evitare di vedere, non ne ricordo il nome. Al teatro Kachalov mi colpì molto la rappresentazione dell’ “Ispettore generale” di Gogol. Esilarante e vera nella sua rappresentazione di una società russa falsa e miserabile.
Int.: è vero che anni dopo Turgeniev la salvò dai debiti di gioco consentendole di tornare a casa da Baden Baden, dove aveva perso tutti i suoi averi?
T.: persi tutto al gioco in una serata detestabile che faceva ancora parte della prima fase della mia vita… che per fortuna visse altre, più costruttive fasi
Int.: a quel punto aveva già cominciato a scrivere racconti. Era rimasto affascinato dalle letture e dalle opere teatrali
T.: avevo capito certamente una cosa: per scrivere sono importanti soprattutto sincerità e verità… non a caso cominciai a scrivere un racconto, che purtroppo non finii, che si chiamava ‘Storia della giornata di ieri’ in cui volevo descrivere tutte le impressioni e i pensieri che riempiono una qualunque giornata di un uomo qualsiasi… un tentativo di rappresentare la verità delle cose nella sua interezza… ma ero ancora confuso sulla mia vita e così tra il ‘51 e il ‘53, seguendo mio fratello Nikolaj, volli fare l’esperienza militare e partecipai alla guerra di Crimea. Fui un soldato che cercò di combattere con coraggio, affrontando rischi d’ogni tipo… mi servì molto questa esperienza, vidi in faccia la morte e ne uscii col desiderio di dedicarmi a nobili ideali. Nei miei diari di quel periodo ho trovato scritto: «La cosa più importante per me è liberarmi dai miei difetti: la pigrizia, la mancanza di carattere, l’irascibilità»: avevo capito che la carriera militare non faceva per me. Ne ricavai la determinazione di dedicarmi alla letteratura. Ma quell’esperienza mi diede materiale a non finire… scrissi alcuni racconti in cui rappresentai la violenza della guerra e questi sconvolsero la società russa per la loro verità e l’assenza del tradizionale romanticismo guerriero, consueto all’epoca nel raccontare la guerra.
Int.: nessuno prima di lei aveva descritto la guerra in quel modo: fu una voce nuova nell’epoca d’oro della letteratura russa. Nel gennaio del ‘56, Fëdor Dostoevskij scrisse dalla Siberia a un corrispondente elogiando la sua opera
T.: ma non era finita: negli anni seguenti viaggiai in Europa e fui sconvolto dagli ingiustificati abusi del potere, dalla miseria del popolo, dalla pena di morte: a Parigi vidi decapitare un uomo con la ghigliottina, in presenza di migliaia di spettatori. Nel momento in cui la testa e il corpo si separarono e caddero diedi un grido e compresi con tutto il mio essere che le razionalizzazioni che avevo sentito a proposito della pena di morte erano solo funesti spropositi e che l’assassinio è il peccato più grave del mondo e davanti ai miei occhi era stato compiuto proprio questo peccato.
Int.: è di quel periodo la sua determinazione a entrare in una fase nuova della sua vita
T.: sì. Ero profondamente insoddisfatto di mé stesso, della mia esistenza, della mia opera… mi risolsi ad abbandonare la vita mondana, anche quella legata alla mia attività letteraria, e mi rifugiai nella mia tenuta… volli fondare una scuola di nuova concezione per metterla al servizio dell’istruzione dei figli dei contadini che lavoravano le nostre terre.
Int.: ma la sua vita fu turbolenta anche in quel periodo: prima del matrimonio sedusse una cameriera che viveva in casa di sua zia e la ragazza fu cacciata di casa… Ebbe anche un figlio, che lei non riconobbe, dalla moglie di un contadino che lavorava le sue terre.
T.: cercai la redenzione dedicandomi interamente alla pedagogia e alla direzione delle mie scuole. Scrissi una Grammatica per le scuole rurali e pubblicai il saggio L’istruzione pubblica in cui sostenevo che, se l’istruzione voleva essere di reale profitto, doveva fondarsi su una libertà d’apprendimento che consenta agli allievi di scegliere da sé cosa studiare e cosa no. Era una critica al sistema scolastico in vigore all’epoca.
(brano su Natasha che danza in Guerra e Pace)
– Su, nipotina! – gridò, facendo un cenno d’invito a Natascia con la mano che aveva spezzato l’accordo. Natascia si sbarazzò dello scialletto che l’avvolgeva, corse davanti allo zio, e con le mani sui fianchi fece un grazioso movimento con le spalle e si fermò.
Dove, quando e come quella contessina educata da un’emigrata francese aveva assorbito, dall’aria russa che respirava, quello spirito e quegli atteggiamenti che le danze francesi da gran tempo avrebbero dovuto cancellare? Ma la sua sensibilità e i suoi gesti erano precisamente quelli istintivi, non imparati, che lo zio si aspettava da lei. Non appena ella si alzò e rimase ferma davanti allo zio, con le labbra atteggiate a un sorriso trionfante, fiero e divertito, la prima paura che per un attimo aveva afferrato Nikolàj e tutti i presenti, la paura cioè che non riuscisse a cavarsela, svanì e tutti già erano in ammirazione davanti a lei.
Ella faceva proprio ciò che doveva, e lo faceva con tale perfetta precisione che Anìssja Fëdorovna, che si era affrettata a porgerle il fazzoletto indispensabile alla sua danza, rise sino alle lacrime guardando quella sottile, graziosa contessina, così diversa da lei, vestita di seta e di velluto, che sapeva intendere tutto ciò che c’era in Anìssja, nel padre di Anìssja, nella zia e nella madre di lei e in ogni anima russa.
Int.: il suo atteggiamento nei confronti delle donne?
T.: sì ho capito cosa intende… nel diario quando ero molto giovane scrissi cose come questa: ‘da cosa deriva in noi la lascivia, la mollezza, la leggerezza in tutte le cose, se non dalle donne? Chi è colpevole se veniamo meno a sentimenti in noi innati: il coraggio, la fermezza, la razionalità, la giustizia… se non le donne? Regola prima: stai lontano dalle donne. Regola seconda: sopprimi la lussuria col lavoro.
Int.: di sua moglie Sonjia era molto innamorato, ma scrisse cose molto forti anche su di lei
T.: Sonjia dopo aver letto il mio diario, mi scrisse: “Perché nei tuoi diari parli sempre così male di me? Vuoi che le generazioni future e i nostri discendenti disprezzino il mio nome, come fossi una moglie frivola e irascibile, che ti ha causato infelicità? … Hai paura che la tua gloria sia diminuita se non dimostri che sono stata il tuo tormento e tu il martire che ha portato una croce a forma di sua moglie?”…
Int.: una donna cosciente della propria libertà di esprimersi senza timori del marito…. una caratteristica di molte donne nei suoi romanzi… forse una caratteristica delle donne slave, che già univano, in un’epoca così turbolenta, ma costretta nel conservatorismo sociale, sensualità e libertà di pensiero. Una donna dotata di senso dell’ironia che si descrive a forma di croce oltretutto
T.: una donna notevole, molte scene che scrissi erano basate sulla sua infanzia e le sue esperienze adolescenziali… mi aiutò nel rappresentare l’ipocrisia dell’aristocrazia di corte, cui apparteneva, e nel delineare i tratti femminili dei miei personaggi… quelli precedenti la mia conversione… in realtà, nello stesso mio diario che lesse, ne avevo elogiato la sofisticata percezione della realtà e le risorse spirituali… probabilmente l’immagine che creai di lei fu un modo per evitare di confrontarmi con la natura così prepotente della mia sensualità… l’uomo che credeva e faceva credere al mondo di amare la verità sopra ogni cosa non riusciva a tollerare tutta la verità su se stesso…
Int.: Sonjia la amava molto e si lasciò modellare dal suo amore per lei
T.: nei primi dieci anni della nostra vita coniugale credetti di aver trovato la via per riconciliare i lati in guerra nell’uomo. Nel personaggio di Levin ho cercato di glorificare gli istinti custoditi nella vita familiare, come guide infallibili alla verità… in lui esprimevo la convinzione che la via per una vita morale non fosse attraverso la negazione della propria natura ma nel consapevole sforzo per fare il bene… questa convinzione fu però ‘erosa’ dal senso di colpa che suscitava in me la passione disinibita di Sonya. Come negli anni di dissolutezza prima del matrimonio tornò fuori la convinzione che l’uomo avesse “due nature, due volontà”… così iniziai a sospettare che il matrimonio, anziché armonizzare gli impulsi sensuali e spirituali dell’uomo, fosse semplicemente una “prostituzione addomesticata”.
Int.: prostituzione?
T.: le cose vanno chiamate con le parole appropriate, perché si meraviglia? Cercai di placare la mia coscienza astenendomi dai rapporti sessuali quando non potevano portare alla procreazione. Consideravo un “crimine” il rapporto con una moglie incinta o che allattava un figlio…
Int.: nei primi dieci anni sua moglie rimase incinta sei volte… facendo un po’ di conti non rimase molto tempo al di fuori di gravidanze e allattamento
T.: cercai di vincere i miei impulsi coltivando la freddezza emotiva e fisica nei suoi confronti… ma questo la portò alla disperazione, nella convinzione di aver perso il mio amore… e non era per nulla vero
Int.: non pensò che l’alternanza fra lussuria e ostilità nel suo atteggiamento potesse significare per Sonjia la trasformazione ai suoi stessi occhi da salvatrice, come era stata all’inizio, a demone come divenne alla fine della sua vita?… ben prima della sua fuga e della sua morte alla stazione di Astàpovo
T.: la sua sensualità e la sua bellezza mi preoccupavano… l’acquisto di un cappello con piume di struzzo da parte sua diventò un segno di corruzione spirituale ai miei occhi, come la sua incapacità di allattare il primo figlio… accusai il suo dottore, che le prescrisse una balia, di privarla del “solo mezzo che l’avrebbe trattenuta dalla civetteria”. Non c’è da stupirsi se quando le gravidanze si susseguirono Sonya scrisse “mi sento una creatura inutile con nausea mattutina, una grande pancia e un brutto carattere… e un amore che nessuno vuole”
Int.: poi venne la sua conversione
T.: alla fine del ‘70 rinunciai finalmente al sogno impossibile di conciliare le mie pulsioni e mi risolsi per un’etica rigidamente dualistica che riconosceva la guerra eterna tra spirito e materia. La castità, la povertà e la semplicità erano i miei ideali… tutto venne travolto da quella visione: lo Stato, il governo, la proprietà privata, e, in mezzo al rifiuto di tutto ciò, la pulsione sessuale fu condannata come manifestazione degli aspetti più miserabili della natura umana.
Int.: lei aveva insegnato a sua moglie e ai suoi figli a idealizzare la vita familiare e le tradizioni della vostra casta, e ad accettarne i privilegi come un vostro diritto. Ora denunciava l’istituto della famiglia e il privilegio sociale e chiedeva a sua moglie e ai suoi figli empatia verso il contadino russo come incarnazione della virtù cristiana.
T.: i miei figli ne furono sbalorditi e Sonya non lo accettò. Non era disposta a “girare come una banderuola in ogni direzione” e rifiutò la mia nuova visione delle cose come superiore ai valori che avevo coltivato in lei per quasi vent’anni… continuava a credere che la mia opera letteraria, cui avevo rinunciato perché senza significato per il popolo, fosse la mia vera vocazione.
Int.: la guerra fra spirito e materia, e con essa il senso di colpa verso il sesso, era inconsueto per un uomo già nella maturità. Maxim Gorky rimase sbalordito da come lei parlava delle donne. Scrisse: “Non c’è niente che gli piaccia tanto come punirle. È la vendetta di chi non ha raggiunto la felicità di cui è capace, o l’ostilità dello spirito verso gli “impulsi umilianti della carne”?
T.: una volta presa la mia via mi convinsi che non ci fosse amore fra di noi, ma solo desiderio fisico e bisogno razionale di un compagno di vita. Nella Sonata a Kreutzer, dove esponevo il mio ideale di castità, attinsi liberamente dal mio rapporto con Sonya, e lei giustamente disse che il mondo l’avrebbe riconosciuta come la “lussuriosa e malvagia moglie” del romanzo… avevo perso probabilmente lucidità in quel momento di enfasi ed estasi quasi mistica… ai figli dissi che “una donna sana è una bestia selvaggia” e mi congratulai con due delle mie figlie per la fortuna di essere poco attraenti, cosa che rendeva improbabile il loro matrimonio… ma il desiderio per Sonjia non sfumava e lei si vendicò rifiutando le mie tenerezze… così crebbe il mio desiderio e con esso il senso di colpa… mi provocava… trasformò in un gioco i nostri rapporti intimi”
Int.: già dai primi diari si nota quanto fosse ossessionato dal conflitto tra “voglie dello spirito e voglie della carne”. Quasi tutti riescono a razionalizzare questo conflitto, a conciliarlo
T.: svilendo la propria missione in questo mondo. La vita deve avere uno scopo, immaginarla fine a se stessa per il soddisfacimento dei propri desideri è volgare e fonte di angoscia implacabile. La distanza fra essere e dover essere è la fonte primaria dell’angoscia e del senso di vuoto. Come si può vivere per sempre sul ciglio del baratro? Cercai per due anni una risposta a questa angoscia. La mia vita si arrestò. Potevo respirare, mangiare, bere, dormire, ma la vita non c’era perché non c’erano desideri la cui soddisfazione valesse la pena. Se desideravo qualcosa, sapevo in anticipo che, soddisfacessi o no il mio desiderio, non ne sarebbe risultato nulla. Nulla. Se uno spirito dei boschi mi avesse proposto di esaudire i miei desideri, non avrei saputo cosa chiedere. Se nei momenti di ubriachezza avevo, non dico desideri, ma abitudini di antichi desideri, nei momenti di lucidità sapevo che era un inganno, che non c’era nulla di desiderabile. Intuii in cosa consistesse la verità: la vita è non-senso. Senza senso… A ciò si aggiunse la morte di mio fratello Nicolaij che provocò un’agonia di interrogativi sul senso dell’esistenza, a cui, né il mio amore per la natura, né la mia arte, offrivano risposte…. L’arte è una bugia e non posso più vivere una bella bugia, mi dissi
Int.: descrisse nella Confessione questo periodo
T.: allargai il raggio delle mie osservazioni, esaminai la vita di enormi masse di uomini, di quelli passati e dei contemporanei. Di uomini che avevano capito il senso della vita, che avevano saputo vivere e morire seguendolo, io ne vedevo non due, tre, dieci, bensì centinaia, migliaia, milioni. E tutti sopportavano privazioni e sofferenze cercando in ciò non la vanità, ma il bene. Fui preso da amore per quegli uomini. Vissi così due anni e in me si verificò quel rivolgimento che da tempo già si preparava e del quale erano sempre esistite dentro di me le premesse. Accadde che la vita della nostra cerchia, dei ricchi, delle persone istruite, non solo mi disgustò, ma perse senso. Tutto ciò che facevamo: i ragionamenti, la scienza, le arti, tutto mi apparve come un trastullo da ragazzi. Capii che non si poteva trovare un senso in tutto ciò. Quello che faceva il popolo lavoratore, che costruisce con le mani la sua vita, era l’unica occupazione degna di rispetto. Capii che il senso che esso attribuiva a quella vita era la verità… e l’accettai.
Int.: arrivò poi la sua particolare visione della religione
T.: una conversazione avuta su Divinità e Fede mi suggerì un’idea grande, stupenda, alla cui realizzazione mi sentii capace di dedicare la vita. La fondazione di una nuova religione: la religione di Cristo, ma purificata dai dogmi e dall’assolutismo, che non prometteva beatitudine nell’aldilà ma avrebbe donato beatitudine sulla terra
Int.: promessa analoga a quella del comunismo, che in quegli anni vedeva la stesura dei suoi testi fondamentali: non più la felicità in un mondo ultraterreno, ma qui sulla terra, per mano del popolo… c’è convergenza sia di tempi che di significato ultimo, in qualche modo
T.: casuale, del tutto casuale
Int.: frutto della brama ottocentesca di una religione universale, spogliata dal soprannaturale? Molti contemporanei la trovarono nel socialismo, lei nella luce interiore, nell’idea di avere ragione, nei secoli dei secoli, con il proprio Dio e solo con lui.
T.: ma no! Per me era indifferente se Gesù Cristo fosse o non fosse Dio e da chi fosse proceduto lo Spirito Santo… per me era importante quella luce che da 1800 anni illuminava l’umanità e che aveva illuminato e illuminava anche me. Ma come chiamare la fonte di questa luce, di cosa fosse fatta e da chi fosse stata accesa, mi era indifferente. Alla base del mio pensiero rimase il Vangelo, ma epurato dal soprannaturale… il Discorso della Montagna nel Vangelo di Matteo diventò il cardine del mio modo di intendere la religione cristiana. I semplici spesso conoscono la verità meglio dei dotti, non perché sono ispirati dal divino afflato, ma perché la loro osservazione degli uomini e della natura non è annebbiata dalle infinite teorie che tormentano le menti colte. Ne derivò il desiderio di non vivere nel lusso, di non possedere alcunché, di non mangiare più carne per rispettare gli animali come esseri creati da Dio… Mia moglie non condivise le mie idee, e ciò fu alla base di un interminabile conflitto familiare
Int.: qualche anno dopo ripose la sua ultima speranza nella sintesi tra le due verità che desiderava servire: la morale e l’estetica
T.: ciò che non andava nelle religioni esistenti, forse anche ora, è che la bellezza – che è il principio fondamentale di tutte le grandi religioni – è stata usurpata dalla ragione. Il bene deve essere inteso come bellezza: porgere l’altra guancia quando si è colpiti “non è intelligente o buono, è insensato, ma allo stesso tempo bello”. Teologia e dogma hanno confuso gli uomini introducendo la logica nella religione, col risultato che non c’è più bellezza, né guida, nel caos tra bene e male.
Int.: ricavo dal romanzo di un conoscente questo brano che insiste sulla relazione fra religione e bellezza: ‘all’inizio della Genesi, che è l’inizio del mondo, Dio disse: ‘Sia la luce! E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e giusta’. Da questo brano si ricava, a rigor di logica tipografica, che Dio non sa esattamente cosa sarebbe stata la luce che va a creare, quindi non ha effettivamente coscienza di tutto quanto esista. E ulteriormente quando giudica la sua creazione non dice che questa è bella, non afferma cioè l’unica cosa che, non avendo coscienza del tutto, avrebbe potuto dire a quel punto. Solo sulla bellezza della sua creazione poteva immediatamente esprimere un giudizio in quanto unico giudizio esprimibile all’istante, non certo sulla sua bontà e giustezza in quanto concetti relativi a un ordine di valori al momento ancora non disponibili, in quanto, se Dio non conosceva cosa andava a creare, non poteva certo avere già creato il sistema di valori in base al quale poterlo definire buono e giusto. Da ciò, come mi pare sostenga anche lei, si ricava che Dio fa discendere la bontà e la giustizia dalla bellezza con tutte le conseguenze del caso e anche che Dio in effetti non è in possesso del sapere nella sua interezza. E se l’uomo è fatto a sua immagine e somiglianza non derivano da ciò interessanti conseguenze? Allora la bellezza precede anche la parola? Quindi la sequenza è: Dio, poi la luce che mostra il mondo non descritto perché privo di parola, poi la bellezza che precede la norma etica che necessita della parola, poi il buono e il giusto contemporaneamente che sono quindi definiti sulla base del bello.’
(lettura del brano sulla primavera all’ inizio di Anna Karenina)
Int.: veniamo alla sua opera come scrittore. Isaiah Berlin ha scritto: ‘I dettagli di Tolstoj non ci colpiscono come selezionati per uno scopo particolare o come accumulati a caso, ma come il segno di un vasto organismo in atto, come la molteplicità delle rughe sulla schiena di un elefante in movimento.’ Nessun altro scrittore ha ricreato come lei emozioni e dettagli con tanta precisione e forza espressiva. Il suo lessico morale inoltre è penetrante e diretto, senza sfumature e ambiguità
T.: ho lavorato molto sulla sintassi cercando di costruire qualcosa di non convenzionale. In Guerra e Pace spesso ho ignorato le regole della grammatica e del corretto ordine delle parole per rafforzare un effetto o ricreare la fluidità della lingua parlata. Ho sfruttato un’ampia varietà di registri linguistici per fare questo. Mi faceva ridere l’arcaico linguaggio delle cancellerie e allora l’ho messo in bocca a un uomo di potere come Arakcheev in Guerra e Pace, il gergo russo di matrice latino-tedesca del XVIII secolo l’ho fatto parlare al principe Bolkonsky, il russo francesizzato e sentimentale dei salotti alle dame dell’aristocrazia di corte, fino al linguaggio semplice dei soldati, dei contadini e degli operai. Trovavo interessante anche l’iterazione di termini per dare ritmo e effetto retorico all’insieme. Questa è forse la caratteristica più distintiva del mio stile. Nel descrivere il contadino Karataev, usai la parola krugly non meno di cinque volte in una frase… a volte usai la stessa parola sei o sette volte in poche righe, come nella scena della morte del principe Andrei.
Int.: il teorico della letteratura Mikhail Bakhtin parla di “polifonia” verbale che lui identifica come nuovo principio organizzativo del romanzo da Gogol in avanti, e quindi anche nel suo caso.
T.: ‘No, c’è un’altra cosa molto più importante… l’eroe della mia narrativa, colui che amo con tutto il cuore e l’anima, che ho cercato di ritrarre in tutta la sua bellezza… è sempre stato, è e sarà sempre… la verità’. Goethe dice: ‘la verità ci respinge, l’errore ci attrae, perché la verità ci mostra il nostro limite, mentre l’errore ci rende onnipotenti. La verità ci respinge perché è frammentaria, incomprensibile, mentre l’errore è coerente e conseguente. E’ una lotta che appare a volte senza speranza fra l’uno e l’altra, ma, non si sa come, alla fine la verità trionfa
Int.: mi viene in mente la determinazione e l’apparente coerenza della caciara fatta dalla stampa della destra politica in ogni paese che, nonostante si basi spesso sul nulla dell’informazione, simula una grande coerenza logica. Come probabilmente la miope visione politica dell’aristocrazia russa alla fine del diciannovesimo secolo
T.: da parte mia intrapresi una politica di altruismo consapevole, soffocando il bisogno di scrivere per dedicarmi al miglioramento delle condizioni dei miei contadini, organizzai una scuola per i loro figli e sviluppai teorie di educazione finalizzate a proteggere e sviluppare i loro preziosi istinti primitivi. La violenza fisica non contribuisce al rialzamento morale e le cattive inclinazioni dell’uomo non possono essere corrette che dall’amore. Il male non può sparire che per mezzo del bene, la vera forza dell’uomo è nella bontà, la pazienza e la carità… noi abbiamo solo una cosa da fare: la nostra vita… fare in modo che sia un’opera integra, piena di senso, buona … un uomo che subisce violenza può essere libero, ma non c’è verso che lo sia uno che la compie… solo i pacifici erediteranno la terra…
Int.: la fine del diciannovesimo secolo fu un periodo di violenza, di repressione, di lotte e rivolte, prima dei contadini e poi degli operai, che sfociarono all’inizio del nuovo secolo nella rivoluzione del 1905
T.: già all’epoca della carestia, “dopo aver visto così da vicino la miseria del popolo, credetti che i favoriti dalla sorte potessero comprendere il mandato del ricco sulla terra”… non fu così. Nel ‘902 scrissi allo zar Nicola II che un terzo della Russia si trovava in uno stato di emergenza senza via di fuga… Le prigioni erano piene di prigionieri politici, tra i quali operai e contadini… in tutte le città venivano mandati i soldati contro il popolo. Fu versato il sangue dei fratelli a rivoli… che divennero veri e propri fiumi. La repressione fu durissima e nel ‘909 tentai di convincere il governo ad abolire la proprietà privata della terra… unica soluzione rimasta per scongiurare una grande rivoluzione, che ritenevo imminente… ma le mie parole caddero nel vuoto e i boiardi continuarono a cavalcare finché il ghiaccio della superbia si spaccò sotto gli zoccoli dei loro cavalli… continuarono a cavalcare imperterriti… verso l’inevitabile baratro della storia