L’immancabile zaino, due paia di jeans, una manciata di maglie, le stesse da anni. La pipa e il cappello da lupo di mare. Pochi affezionati libri e tanti taccuini densi di annotazioni. E poi la telecamera e due computer. Anzi uno solo. Dell’altro si sono ufficialmente perse le tracce quella maledetta notte: il 14 aprile 2011, quando l’attivista italiano per i diritti umani, Vittorio Arrigoni, è stato ucciso da un presunto gruppo estremista islamico, nella Striscia di Gaza.
«A Gaza non ci sono arrivato svegliandomi una mattina», mi aveva detto con quella sua erre moscia, nell’aprile del 2009, quando l’avevo incontrato e intervistato sopra una barca bucherellata dai proiettili, nel porto di Gaza City. «Il mio è un cammino esistenziale – aveva precisato – sono più di dieci anni che faccio attivismo per i diritti umani a giro per il mondo».
Io non credo nei confini
Vittorio Arrigoni, Vik per gli amici, ne aveva macinati di chilometri prima di arrivare a Gaza nell’agosto del 2008. Perù, Croazia, Ucraina, Estonia, Congo, Libano e nel 2005la Cisgiordania: per il diritto internazionale una parte dei cosiddetti “Territori Occupati” da Israele nel 1967, per lui semplicementela Palestina.