In due lettere a Paul Auster, scritte nell’autunno del 2009 e recentemente pubblicate in Here and Know [1], J.M. Coetzee considera l’idea dello “stile tardo”:
Non è raro per gli scrittori, quando invecchiano, divenire intolleranti con la così detta poesia del linguaggio e procedere verso uno stile più asciutto (“stile tardo”). Il più famoso esempio, suppongo, è Tolstoj, che nella vita tarda espresse una disapprovazione moralistica nei confronti dei poteri seduttivi dell’arte e confinò sé stesso a storie che non sarebbero state fuori posto in una scuola elementare…. Si può pensare a una vita nell’arte, schematicamente, in due o forse tre livelli. Nel primo incontri, o poni a te stesso, una grande domanda. Nel secondo ti affatichi per rispondere ad essa. E poi, se vivi abbastanza a lungo, arrivi al terzo livello, in cui la grande domanda di cui sopra comincia ad annoiarti, e hai bisogno di guardare da un’altra parte.
Poi ritorna al soggetto che è ovviamente nella sua testa: «Lo stile tardo, per me, comincia con l’ideale di un linguaggio semplice, controllato, disadorno e la concentrazione su questioni di reale gravità, anche questioni riguardanti la vita e la morte».
Questi pensieri sullo “stile tardo” erano per Coetzee, a malapena, riflessioni astratte. Si stava poi avvicinando al suo settantesimo compleanno, che presumibilmente suona ancora come una undicesima ora biografica. (Ora ha settantatré anni.) Può darsi che in modo più rilevante, il suo bisogno di «guardare da un’altra parte» sia tangibile. L’ultimo romanzo di Coetzee, la fiction Tempo d’estate meravigliosamente giocoso ma spesso autobiografico in modo lacerante, cominciava e finiva con il desiderio di scappare, di liberare sé stesso dal carico di responsabilità nei confronti della storia e la famiglia. Quel libro costituiva un regolamento di conti letteralmente finale con la sua carriera dentro e oltre il suo nativo Sud Africa: l’idea del romanzo è che John Coetzee è morto e coloro che lo conobbero meglio vengono intervistati da un biografo qualche volta ottuso.
Per stare al gioco, possiamo dire che il suo nuovo romanzo, L’infanzia di Gesù [2], è perciò non tanto un lavoro tardo quanto una pubblicazione postuma. È il dopo vita dello scrittore, Coetzee dopo Coetzee. Come il personaggio principale, Simón, spiega a David, il ragazzo di cui lui è diventato il padre surrogato: «Dopo la morte c’è sempre un’altra vita… Noi esseri umani siamo fortunati da questo punto di vista».
Nel posto misterioso in cui entrambi sono giunti: «Nessuno di noi ha un passato. Cominciamo di nuovo qui. Cominciamo con una lavagna vuota, una lavagna vergine». Un’importante locuzione rincorrente ne L’infanzia di Gesù è «lavato e pulito» – pulito da tutti i legami, pulito dai ricordi, pulito dal passato. Il romanzo stesso può essere visto come un assalto di Coetzee su una lavagna vuota, la sua escursione in un universo di finzione da cui tutte le cose che erano aggrappate al suo precedente lavoro, spesso a dispetto di esso – la politica, la storia, il sesso, la famiglia – sono state alla fine spazzate via.
Il suo incanto è che fallisce. Tradisce una profonda incertezza sul progetto di uno “stile tardo” che lo indebolisce come romanzo ma che affascinerà gli ammiratori di Coetzee. Esso mostra l’autore in due atteggiamenti mentali: determinato a cominciare di nuovo senza coinvolgimenti o ricordi ma preoccupato che tale mondo possa essere un posto arido. Forse per la prima volta nella sua brillante carriera, colui che è uno scrittore raffinato tra i più sicuri di sé sembra in ansia perché questo nuovo mondo potrebbe essere una terra di nessuno in cui egli non può collocare alcun punto di riferimento significativo. La tensione è, nel suo proprio modo, stranamente avvincente.