scontentezza per una vita senza appigli per le sue aspirazioni, Iole aveva continuato a perpetuare i riti giornalieri, come andare a fare colazione nel solito bar dove incontrava spesso un giovane su una sedia a rotelle in compagnia di una ragazza più o meno della stessa età. Lei faceva colazione e lui le parlava con allegria. Indossava sempre una cuffia che gli schiacciava i piccoli riccioli dei capelli corvini.
Le erano simpatici quei due giovani che parevano vivere in un loro mondo, incuranti di ciò che li circondava. La incuriosivano e aveva provato più volte l’impulso di avvicinarli ma poi aveva sempre rinviato ad un’altra occasione.
Un giorno vide che la ragazza era sola e con tutta la faccia tosta su cui poteva contare, non molta per la verità, si sedette allo stesso tavolino e si presentò.
«Iolanda».
«Piacere, Marta».
Fecero rapidamente amicizia. Parlarono del più e del meno, raccontandosi le cose che servono a capire se vale la pena continuare: mi sono laureata lo scorso anno in farmacia, io in filosofia, lavoro con mio zio, sì abito qui vicino, non sono fidanzata, nemmeno io. Decisero di rivedersi all’ora di pranzo, per un panino.
Iolanda apprese dalla ragazza che il giovane, suo fratello, era totalmente sano sul piano fisico, ma soffriva di una rara condizione mentale che induce chi ne è affetto a non riconoscersi nel proprio stato di salute e a fare di tutto per modificarlo. Aveva cominciato a manifestarla da piccolo, a poco più di sei anni, da quando la madre, cui era morbosamente attaccato, aveva preso a zoppicare in modo vistoso a seguito di un incidente e si muoveva con l’aiuto di stampelle. In lui era scattato il desiderio di esserle simile ed era giunto a procurarsi lesioni volontarie e a ricercare incidenti. Con gli anni la situazione era peggiorata e le sue difficoltà a stare sulle gambe si erano aggravate fino a rendere necessario il ricorso a una sedia a rotelle, dalla quale non si era più alzato.
La morte della madre aveva rafforzato in lui la decisione di diventare paraplegico, considerandolo il modo migliore per onorare la genitrice.
«Si chiama “disturbo d’identità dell’integrità corporea” ed è una condizione psicologica terribile nella quale il soggetto sente di abitare un corpo che non corrisponde all’immagine mentale che ha di se stesso».
«A cosa è dovuta?» mostrò d’interessarsi Iole.
«Secondo alcuni specialisti, alla base vi sarebbe il desiderio patologico di procurarsi un’amorosa attenzione da parte degli altri. Il soggetto si sente non amato e, confinandosi nello stato di paralitico o amputato, può attrarre simpatia e amore».
«Lui cosa dice?».
«Sostiene che qualcosa nel cervello gli dice che le sue gambe non sono fatte per muoversi, non le odia ma le sente sbagliate. Dice di essere cosciente che sono come la natura ha previsto che siano, ma prova un’intensa sensazione di disagio nell’essere in grado di percepire e muovere le gambe».
Marta notò lo smarrimento di Iole e ritenne di dover fornire una precisazione.
«Non è pazzo, non ha difficoltà relazionali ed è completamente ancorato alla realtà, pur vivendo la dolorosa sensazione di qualcosa di profondamente sbagliato e intollerabile nel suo corpo integro».
«Come vive? Ha amici?».
«Non è solo, fa parte di un giro di persone di diverse nazionalità, conosciute in rete, che richiedono la possibilità di accedere a una chirurgia sicura e legale per le amputazioni o alla supervisione medica per diventare paraplegici. Lui chiede la recisione dei nervi sciatico e femorale».
«I medici cosa rispondono a questa richiesta particolare, diciamo così?».
«Prendono tempo, cavillano, fanno esami».
«E lui?».
«Si inalbera e sostiene che del suo corpo ha diritto di disporne liberamente. “Non valgo meno di un transessuale che può farsi operare quando vuole” dice».
Le due ragazze presero a frequentarsi con regolarità. Al mattino si incontravano al bar per la colazione, in compagnia del giovane che, dopo l’accoglienza scostante delle prime volte, cominciò ad aprirsi manifestando interesse per la nuova amica della sorella.