Questa potrebbe essere una storia di canali, gore, terre ghiacciate, scarponi che affondano nella neve. Ma non solo. Perché c’è Giufa, c’è Camilla e c’è una cattedrale. Un’abbazia cistercense scoperchiata, la cui navata è invasa dall’erba. Tutti la conoscono. Anche Giufa e Camilla. E un hotel chiuso e illuminato lì davanti, dove i cristalli di ghiaccio cadono giù dai tetti battendo i denti.
Siamo nella notte prima del Natale e Giufa e Camilla sono venuti fin qui solo perché un giorno di qualche anno fa, in questo posto desolato, s’è girato un film di cappa e spada di cui si sono invaghiti come quindicenni. Un film di second’ordine che li ha rapiti di meraviglia come i personaggi di una canzone popolare d’altri tempi, tra Turchia e Sicilia, dove malizia e furberia non son mai di casa.
Inutile dire che Giufa e Camilla, passati i cinquanta ma sempre raggianti di cuore, sono gli unici avventori dell’albergo. I proprietari, marito e moglie – quest’ultima in ogni corridoio e a tutte le ore quanto il marito in luoghi introvabili, o indaffarato dietro mille incombenze – li guardano con tanto d’occhi: la notte di Natale, infatti, in quel posto non viene mai nessuno. E nemmeno nelle lunghe settimane invernali, così che spesso i due scelgono di chiudere i battenti e starsene rintanati nella loro casuccia di paese. Scelta anche di quella sera, fatta in barba agli ospiti.
Per la verità, se non fosse per quelli che vengono a visitare l’abbazia, soprattutto la domenica, bisognerebbe vender tutto al primo sprovveduto. Così la donna, un tipo energico e con due polsi da spavento, poggiati sui fianchi dopo aver alzato le maniche ai gomiti, dice a entrambi: «Non posso mica tenere acceso per voi. Mi capirete, spero. Ho una stufa elettrica per la vostra camera. Mio marito l’ha già preparata. Vi consiglio di farla andare tutta la notte: qui fa davvero freddo in inverno e… buon Natale, si capisce!».
Quindi, con fare sicuro, si volta per andarsene in cucina.
Dopo aver mangiato Giufa e Camilla se ne vanno in camera con l’intenzione di recarsi a visitare l’abbazia in piena notte. Davanti allo specchio, nel bagno ampio e bianco, stanno inadatti.
Camilla, il raggio degli occhi bianchi, rotondi e timidi, è abituata a passeggiare nelle città tra languore di vaniglia, per minuscoli caffè pieni d’ottone, di mattonelle azzurre e grigie, di donne che si fanno spazio coi gomiti, tra i viali pieni di foglie, un po’ spogli e dal selciato nero, fiancheggiati da palazzi fine ottocento. E poi ancora parchi rumorosi per via di fontane che urlano, di colori come fiori dopo un assalto sotto il verde; verde che avvampa violento, materia viva anche lui.
Giufa, del suo, un languore di cigni, campane, profumo acuto di mandarino. Sotto i suoi piedi, su strade scabrose, scivola sempre troppo amaro. Ha un’immaginazione calda e dolorosa, Giufa, come il palmo di una mano; uno che la verità gli si rivela senza spostare un ciglio, da sentirla un grande mare azzurro tra rare imbarcazioni.
Così, pronti e ben vestiti ad affrontare i geli della stagione, eccoli scendere nell’atrio cercando qualcuno. Ma tutto è deserto e nessuno risponde. Per quanto cerchino non trovano anima viva.
Finché debbono convincersi: i padroni se ne sono andati. C’era da aspettarselo, è vero, ma lo stupore è comunque troppo grande: andarsene senza dir nulla e lasciarli soli, unici custodi di tutto l’albergo!
Dormire lì, di notte, non sarà divertente, proprio no. Ma Giufa e Camilla sono testardi come pochi; e senza malizia, per di più.
Così, soli soletti, i due decidono di non curarsi delle avversità e andare a vedere l’abbazia di notte. Eccola laggiù, illuminata e spettrale.