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Il viaggio di Stefano Calzati in Vietnam si snoda lungo un percorso di oltre 1500km, da Ho Chi Minh City (a sud) alla capitale Hanoi (a nord) passando per Mui Ne, Nha Trang, Hoi An e Hué. A tale percorso si abbina un continuo oscillare della penna tra il Sé dell’autore e il mondo esterno, che pure nutre la scrittura con i suoi vari linguaggi. Ecco allora che l’incontro con Cham, guida turistica ben istruita alle trincee di Cu Chi, troverà una sua inaspettata replica ad Hanoi, in ocassione della festività del Tet, e tra questi due episodi, una serie di incontri segnano il cammino e le riflessioni dell’autore come specchio della poliedricità del quotidiano e della giovialità del Vietnam e del suo intero popolo.
Pubblichiamo quì di seguito un capitolo del romanzo.
VIII
A bordo di un bus di linea in condizioni decisamente opinabili, lascio Ho Chi Minh City quando il tor rido del mattino ha già infestato la città. Il viaggio verso Mui Ne, piccolo villaggio costiero a quattro ore di distanza, non è scevro di disagio soprattutto perché, seduto nel back del bus, ogni irregolarità dell’asfalto si ripercuote lungo tutta la schiena, provocandomi un crescente irrigidimento di muscoli e articolazioni. Cham, ancora una volta accorta messaggera, mi aveva avvertito: attraversare il paese su gomma – siano le gomme di una bici, di uno scooter, di un’auto, o di un bus – è un’esperienza fertile di “astonishment”.
Proprio così aveva detto: astonishment. Sbigottimento. Smog e polveri dai finestrini, il rombante rollio del motore in sottofondo e una buona dose di suspense a ogni stretto tornante: è così che mi vedo costretto a ridefinire, sulla via per Mui Ne, il mio personale concetto di “sbigottimento” in direzione di un rinnovato attaccamento alla vita. Come sempre, veicoli e soggetti di ogni sorta popolano la strada senza curarsi troppo di concedersi reciproche attenzioni, sicché mentre ognuno, in questo perdurante esodo pagano, si dimena per raggiungere la propria meta, su tutti grava e impera la sola legge naturale dell’evitarsi metodicamente al centimetro, lasciando coloro che non sono abituati all’esperienza – vedi il sottoscritto – aggrappati al proprio respiro come si trattasse dell’ultimo; l’ultimo alito di vita terrena prima del trapasso nel parabrezza di qualche veicolo contrario.
Poi, ciclicamente, l’ingorgo o il sorpasso eruttano in un acuto cacofonico di clacson e, nonostante nessuno sollevi il piede dall’acceleratore, né tantomeno tocchi il pedale del freno, il peggio è solo accarezzato come per intercessione divina: il respiro viene allora ringhiottito nei polmoni, già dolenti per l’umidità, e si è quasi prossimi a pensare, in un rimprovero di autocommiserazione, di essersi preoccupati oltremodo. Almeno fino al successivo incrocio fatale. Vorrei ben credere in qualche Dio, ora.
Attraversiamo affastellate baraccopoli senza fine dove il miraggio del benessere è ridotto, ancora, alla Cola e alle automobili Euro 0. Le curve del paesaggio si addolciscono solo quando siamo ormai lontani centinaia di chilometri da Ho Chi Minh City, là dove la terra riconquista sull’uomo un provvisorio dominio. Poi, verso l’una, l’autobus giunge nei pressi di Mui Ne e mi scarica, senza troppi cerimoniali, lungo una strada a due corsie delimitata sul lato sinistro – quello dell’entroterra – da tiendas e da negozi, e sul lato destro – quello del mare – da scintillanti resort e da hotel, alcuni dei quali sono incompiuti, altri già terminati, altri ancora in fase di rinnovamento; ma tutti che si perdono, uguali, sulla via di fuga tracciata da quella lingua asfaltata il cui abbacinante destino prosegue per una decina di chilometri fino al vicino villaggio. Il timore che anche qui il denaro abbia cancellato la vita autoctona mi prende in un baleno. Temo che sia troppo tardi; ma per cosa, in fondo? La mia coscienza non può che impregnarsi, di nuovo, di interrogativi viziati.
Paradossalmente, l’avvento delle ruspe ha avuto qui un effetto ancora più tranciante che non a Ho Chi Minh City, città nella quale l’occupazione progressiva del cemento ha richiesto diversi anni, facendo germinare, nel frattempo, un sincretismo storico e urbano senza dubbio affastellato e incoerente, ma nel quale tendenze contemporanee e pre-moderne si resistono a vicenda, insinuandosi nei rispettivi incustoditi interstizi. A Mui Ne, invece, la concretezza del concrete si è, molto più semplicemente, insediata sopra il sensibile, soffocando la resistenza locale nel giro di qualche anno. L’occupazione è stata imponente, monolitica, senza speranza alcuna di negoziazione, sicché di quegli sparuti residenti – principalmente pescatori e anziani – che ancora sfuggono alla tentazione del turismo, l’immagine che ne ritorna è di soggetti tanto stoici quanto sprovvedutamente disarmati.
E allora, lungo questa strada bollente che trasuda un arricchimento precoce, penso a Pasolini, alle sue grida isolate, inascoltate, derise finanche, in difesa della campagna italiana, di cui denunciava la scomparsa ogni giorno – ed erano gli anni Settanta – servendosi di quella sua sensibilità così legata al rurale e al rituale e di quella sua prosa così caustica e contraddittoria, doti che fecero di lui, infine,
un intellettuale e un uomo scomodo, troppo accorto, troppo scomodamente accorto, per essere davvero compreso. Penso a Orte, a Sabaudia, al litorale romano, emblemi, per Pasolini, dello sfacelo antropologico italico, della deumanizzazione del territorio e della irreversibile violenza inflitta al corpo e alla terra. Penso a tutte queste cose mentre mi incammino a piedi alla ricerca di una cheap accommodation e mi chiedo quanto davvero io possa capire questi luoghi e quanto sia giusto, ancora una volta, che io applichi su di loro valori che sono miei e soltanto miei. Orte e Sabaudia non sono Mui Ne, eppure sono state tutte e tre soggette, in tempi diversi, alle stesse leggi, alle stesse dinamiche. Sicché, mi domando, se il capitalismo pare davvero essere l’unico modello rimasto, significa che esso diventi di conseguenza valido? Ovvio che no, a meno che non si creda a un fantomatico darwinismo economico. Non siamo forse menati nel labirinto della competizione da un gioco di specchi? Possibile che non ci sia un’altra idea? Altre visioni? Il caldo è infernale.
Butto giù queste note al riparo di una grande palma; lo zaino, impregnato di sudore accanto a me, sembra scrutarmi. O forse ho solo preso troppo sole. La penna scorre, pagina dopo pagina, lasciando dietro di sé il lamento di domande senza risposta. Dopotutto, è la scrittura medesima a far vibrare il diaframma dell’incertezza: la scrittura è inscrizione dell’io sull’io e in quanto tale non posso che proiettarvi sopra un personalissimo e schizofrenico simulacro che genera già, di necessità, una scissione tra il pensiero e il linguaggio, tra il dubbio e l’ipotesi, between myself et le monde. La scrittura diviene trama che mi lega all’altro, all’esteriorità di un mondo che mi pare sempre un passo troppo distante. Non potrò mai eludere, in fondo, il punto di vista che io – in quanto occhi, volto, mani e gambe in movimento – corporalmente rappresento, nonché la cultura, la conoscenza, e soprattutto l’ignoranza attraverso le quali marco la mia presenza, traccio il mio percorso e anticipo le mie stesse conclusioni. On a déjà tout dit? Tout raconté? Probabilmente sì, ma non in ogni forma possibile. E, grazie a Dio – questa volta è proprio lui che invoco! – il linguaggio, arzillo pater della comunicazione, si mantiene in movimento insieme a me, giacché, sebbene le parole perpetrino l’originale peccato di cui la mia inscrizione si sostanzia, lo fanno in modi sempre nuovi, ovvero rimestando in continuazione il mio essere viaggiatore e scribacchino; figlio integrante e arruolato di una generazione dal gemito facile e, ahimè, dalle armi piuttosto spuntate. Ma non del tutto disinteressato. Letale alchimia. Proprio come quegli abitanti che ancora credono di poter resistere.
Nient’altro, credo, può essere detto o scritto a proposito di questo frangente trascorso al riparo dal sole più cruento. E allora, ciò che posso imparare, qui, adesso, aujourd’hui et pour l’avenir, è la necessità di soppesare vizi e onestà del mio sguardo, sempre, senza per questo cadere in una sospensione agnostica di giudizio. “Write the right thing!” Il monito di Cham mi risuona ora nella memoria con un tono più vero, disvelando la potenziale falsificazione che la mia autorità peripatetica si porta appresso. Potrei magari diluire tale rischio (quasi si trattasse di rendere la rappresentazione dell’Esotico per mezzo di un acquerello) dimorando a lungo in questa terra: “faire partie du monde”, come sostiene Richard. Eppure, temo, si tratterebbe pur sempre di un avvicinamento chimerico; di una conoscenza protesa all’infinito. È veramente (solo) una questione di tempo? Non restano (che) parole. Dunque, cosa significa viaggiare e scrivere? Non saprei, ma ciò di cui sono sicuro è che la distanza, rispettivamente fisica e metaforica, di cui il viaggio e la scrittura si connaturano, sia in ultimo incolmabile, sicché arrogante sarebbe pretendere di esaurirla con una fugace comparsata nelle terre dell’interculturalità. E allora, mentre riprendo il cammino verso una possibile guesthouse, realizzo che non mi rimane che una sola strada da percorrere: criticare, a ogni passo, la mia persona, metterne in crisi i pensieri, le emozioni, i desideri, senza per questo, spero, cessare di nutrire la passione per la sorpresa – the astonishment – che la mantiene in movimento.
Giunto all’estremità opposta della strada, là dove alcune case di pescatori si raggruppano segnando il confine del paese, trovo un confortevole bungalow a ridosso della spiaggia. Non siamo in alta stagione; la pineta è quasi completamente libera; il prezzo è meno di quanto mi aspettassi: otto dollari. Il villaggio è immerso in una siesta pomeridiana che ne fa risaltare l’abulica routine. Forse, non tutto è perduto. All’interno del bungalow un ventilatore muove delicatamente l’aria; una rete copre il letto da cima a fondo per evitare l’assedio degli insetti; la toilette consiste in una turca open air, appena nascosta da una recinzione in canne di bambù. Mi stendo sul letto: è ora di pranzo, ma dopo qualche minuto mi addormento pesantemente, accompagnato, in questo, dal suono ipnotico del mare. Il suono ipnotico del mare.