Raffaele Ariano

Il cinema di Paolo Sorrentino

LA GRANDE BELLEZZA, un film di Paolo Sorrentino

CINEMA: Partendo dal suo ultimo film, La grande bellezza, Raffaele Ariano analizza la filmografia di uno dei registi italiani più interessanti apparsi sul grande schermo negli ultimi anni: Paolo Sorrentino.

La frivolezza è quindi l’antidoto più efficace al male di essere ciò che si è: grazie a essa noi inganniamo la gente e dissimuliamo la sconvenienza delle nostre profondità. Senza i suoi artifici, come non vergognarsi di avere un’anima?

Emil Cioran, Sommario di decomposizione

 

Con l’approdo nelle sale del suo sesto lungometraggio, La grande bellezza, i tempi sembrano maturi per aprire una riflessione complessiva sull’opera di Paolo Sorrentino, sulla sua poetica e sui motivi della sua rilevanza per la cinematografia italiana. Da un lato, infatti, il regista napoletano ha dimostrato, lungo l’intero arco della sua produzione, di avere una voce fortemente coesa e originale, tanto dal punto di vista dello stile cinematografico, della mise-en-scène, quanto da quello della costruzione dei personaggi e della narrazione; due aspetti che, insieme, lo rendono a tutti gli effetti un autore, e uno dei più rilevanti, se non il più rilevante, del cinema italiano recente. Dall’altro, non si può trascurare che, anche dal punto di vista del riconoscimento di pubblico e critica, Sorrentino costituisca oramai un piccolo caso. Film i cui protagonisti non hanno mai meno di cinquant’anni e sono intrisi di un forte senso di decadimento, nostalgia, fallimento, sono apprezzati da molti in Italia, ma autenticamente idolatrati proprio dal pubblico giovane, quello under 30, che vi si riconosce pur non essendovi stato direttamente messo in scena; e ancora, storie le cui psicologie e i cui contesti sociali sono fortemente italiani – eccezion fatta, come ovvio, per This Must Be The Place – vengono comprese e apprezzate dalle giurie e dalla critica straniera talvolta di più che da quelle italiane, pur essendo esattamente l’opposto di facili “cartoline” sul Belpaese. Una rapida scorsa alle recensioni estere a La grande bellezza ne dà chiara conferma. Un primo bilancio sull’autore Sorrentino può essere insomma condotto analizzando in dettaglio questa sua ultima fatica, che è a tutti gli effetti una summa dei temi estetici e filosofici che ricorrono sin dalla sua opera prima, L’uomo in più (e che tornano, con le differenze dovute al cambio di medium, anche nei suoi lavori letterari, il piacevole romanzo Hanno tutti ragione, Feltrinelli 2010 e la più sbiadita raccolta di racconti Tony Pagoda e i suoi amici, Feltrinelli 2012).

Le due sequenze d’apertura de La grande bellezza racchiudono come un prisma i temi della narrazione che verrà. Sulle note eteree di I Lie del compositore californiano David Lang vediamo dispiegarsi il panorama romano del colle del Gianicolo e, in alternanza, un coro femminile che, in un felice spiazzamento della separazione tra diegetico ed extradiegetico, canta il brano di sottofondo affacciandosi dalle finestre della Fontana dell’Acqua Paola. Movimenti di macchina molto marcati, quasi eccessivi, con l’utilizzo dei tipici dolly e crane che sono uno dei marchi di fabbrica di Sorrentino, evidenziano al contempo la maestà e l’inebetente rapimento connessi alla visione di Roma, alla bellezza terribile dei suoi monumenti. Il lirismo di questa sequenza è però subito punteggiato dall’irruzione del volgare: un nugolo di turisti che fotografano compulsivamente, l’esclamazione in romanesco «Mi hai proprio rotto il cazzo» di una comparsa che parla al cellulare, un obeso in canottiera che si terge il sudore con l’acqua della Fontana, come fosse in un bagno pubblico. Sono solo brevi sprazzi, che squarciano per un istante l’armonia di musica e immagini. La sequenza successiva rovescia tutto questo. Un repentino stacco di montaggio, uno sguaiato grido femminile, e dal silenzio solenne della cima del colle romano si è catapultati su un rooftop del centro, in mezzo alla bolgia decadente di una festa di compleanno. Una folla di volti deformati dall’alcol, dal ballo e dal desiderio, giovani corpi di modelle mischiati a quelli di sessantenni liftati e con le camicie sbottonate, balli di gruppo, nani, mariachi che sfilano suonando grottescamente in mezzo alla folla incurante. In colonna sonora, Far L’Amore di Bob Sinclar, remix del brano di Raffaella Carrà. La città eterna si rivela nell’altro suo volto, quello di una Babilonia volgare e insensata. Anche in questo caso, brevi istanti di ribaltamento: la Carrà cede per un attimo la scena agli ovattati suoni elettronici di More Than Scarlet dei Decoder Ring, mentre poche inquadrature si soffermano su un’elegante e sinuosa ballerina di burlesque, che, dall’altro lato di un vetro insonorizzato, danza a beneficio degli invitati, immersa nel perfetto silenzio. Dall’intangibilità ieratica della sua figura emana una sorta di mistero, quella bellezza sommessa che balena per un istante, secondo uno degli stilemi ricorrenti della poetica visiva di Sorrentino. Nella prima sequenza, il grottesco si sprigionava dalle fratture di una bellezza che si vorrebbe perfetta, eterna, intangibile; e di contro, nella seconda, spiragli di bellezza riescono a filtrare nonostante la prosaicità della vita, tra le sue pieghe.

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