La mattina del 26 giugno del 2000, nella East Room della Casa Bianca, Francis Collins, direttore del Progetto Genoma Umano, e Craig Venter, presidente dell’azienda privata Celera, presentarono al presidente Clinton il primo abbozzo del genoma umano: tre miliardi di lettere, corrispondenti a circa 25.000 geni. L’aspettativa che aveva messo in moto una delle più imponenti imprese della Big Science era di poter leggere in quel libro i segreti della natura umana. L’obiettivo era prevenire e curare le malattie genetiche e, come corollario, diventare una sorta di oroscopo del nostro futuro, oltre che l’archivio del nostro passato, delle migrazioni dei nostri avi e il biglietto da visita dei nostri talenti.
Nel 2001 si concludeva l’ultima tappa di una corsa iniziata più di un secolo prima, “il secolo del gene”, come l’ha chiamato Evelyn Fox Keller. Eppure da questa «fine dell’inizio»1 – così la considerava Collins – sono cominciati a venire al pettine diversi nodi che hanno costretto a ripensare l’idea e il ruolo dei geni e ad avviare nuovi progetti per capirli fino in fondo.