JULIAN BARNES, Il senso di una fine, Einaudi, trad. it. di Susanna Basso, pp. 160, €17.50
Gli scrittori inglesi sono oramai in grado di descrivere il senso di imbarazzo con un’eleganza particolarmente raffinata. Quando i loro personaggi indossano gli abiti sbagliati, o per esempio appartengono alla classe sociale sbagliata, si avverte un senso di profonda inadeguatezza, quasi di natura spirituale. Tuttavia, le frasi utilizzate per descrivere momenti – o anche ore o anni – di sconfortante turbamento rimangono, nell’opera di Julian Barnes, eleganti, accurate e ricercate. È come se la prosa rappresentasse l’ordinato rumore di fondo prodotto dalla società, o meglio la risonanza del giudizio del lettore, sul quale viene enfatizzata ancor più l’interna e disordinata paura del protagonista maschile, che vive in uno stato di profondo malessere.
C’è una poesia incompiuta di Philip Larkin dei primi anni Sessanta intitolata The Dance, in cui il protagonista «osserva nello specchio che si oscura / la vergogna di indossare pantaloni da sera, cravatta da sera», e poi, giungendo nella sala da ballo, si ritrova a costeggiare «il rumore / verso un bar arrangiato in equilibrio precario / e si guarda intorno».