Walter Benjamin è entrato nella lingua inglese nel modo sbagliato: era un mito prima ancora di aver avuto la possibilità di essere un fatto reale. Quando fu pubblicata la prima raccolta americana dei suoi saggi – Illuminations, a cura di Hannah Arendt, nel 1968 – era morto da circa tre decenni. Solo pochi sopravvissuti della Germania di Weimar ricordavano ancora la sua breve, illustre carriera come critico letterario. Ancora di meno – solo i suoi amici più stretti – avevano conoscenza degli scritti inediti che includevano parte del suo pensiero più profondo. In realtà, se non fosse stato per questi amici devoti – Georges Bataille a Parigi, Gershom Scholem a Gerusalemme, Theodor Adorno a New York – gli scritti di Benjamin non sarebbero sopravvissuti alla Seconda Guerra Mondiale, proprio come lui stesso non le sopravvisse.
Il mito di Benjamin fu fondato su questa morte prematura, che è divenuta nel tempo una delle storie emblematiche del ventesimo secolo. La caduta della Francia nel 1940 trovò Benjamin, così come molti altri intellettuali ebrei tedeschi, mentre viveva in precario esilio a Parigi. Fuggì al sud nella zona non occupata, e si diede da fare per ottenere un visto per entrare negli Stati Uniti; ma il governo di Vichy non gli avrebbe concesso un visto di uscita, rendendogli impossibile lasciare legalmente il paese. Nel settembre 1940, Benjamin si unì a un gruppo di rifugiati che cercavano di attraversare il confine con la Spagna a Port Bou, ma dopo un difficoltoso cammino furono fermati dalla polizia spagnola e gli fu proibito di entrare. Disperato ed esausto, certo che sarebbe stato rimandato in Francia e catturato dai nazisti, si uccise con una overdose di morfina.
Il destino di Benjamin divenne una parabola perfetta del pensiero europeo perseguitato fino alla morte dal fascismo. Essere una parabola, comunque, significa essere soggetto ad una interpretazione – come nessuno meglio di Benjamin sapeva, poiché il potere dell’interpretazione e il destino della letteratura erano due dei temi centrali del suo lavoro. La sua storia è stata raccontata nella finzione (Benjamin’s Crossing di Jay Parini) e ha ispirato autobiografie di altre persone (Walter Benjamin at the Dairy Queen di Larry McMurtry), così come numerosi studi accademici. Ma la reputazione di Benjamin in America si è formata in maniera più determinante in particolare attraverso due eloquenti interpretazioni.
La prima fu il lungo saggio introduttivo della Arendt in Illuminations, che per la maggior parte dei lettori americani fu la prima cosa (e forse ancora lo è) che avessero letto su Benjamin. Arendt, che era stata amica di Benjamin quando erano entrambi esiliati a Parigi, condivideva il suo background di ebreo tedesco integrato, e il suo saggio è in gran parte un’inchiesta sul modo in cui egli sia stato formato e non da quella cultura. Cresciuto nell’aspettativa che la sua famiglia della classe media superiore avrebbe supportato i suoi obbiettivi scolastici, scrive la Arendt, egli non si adattò mai alla necessità di guadagnarsi da vivere. Fu incapace di crearsi collegamenti e alleati professionali; non riuscì ad adattarsi al sistema universitario tedesco e non riuscì a proteggersi dai pericoli della storia. «Con la precisione tipica di un sonnambulo», scrive la Arendt, «la sua goffaggine lo conduceva invariabilmente al centro stesso della sventura». Anche la sua morte, lei suggerisce, fu una prova della sua cattiva stella: gli accadde di cercare di attraversare il confine spagnolo proprio nel momento in cui era impossibile.
Ogni ritratto dice qualcosa del modello e qualcosa dell’artista, e il ritratto della Arendt di Benjamin non fa eccezione. La Arendt, che sopravvisse all’ordalia che uccise Benjamin e tanti altri, lo ricorda con una combinazione di amore, ammirazione e sgomento. Il suo saggio lascia la potente impressione che quello che uccise Benjamin – e, implicitamente, la cultura ebraica tedesca che lo produsse – fu una fatale chiusura in sé stesso e una mancanza di concretezza, che era sia colpevole che patetica: «La sua prospettiva era tipica di un’intera generazione di intellettuali ebrei tedeschi, benché probabilmente nessun altro vi ebbe a che fare in maniera così negativa come lui».
Molto differente nel tono è l’altro saggio di riferimento su Benjamin, Sotto il segno di saturno di Susan Sontag. Per la Sontag, che scrive dal punto di vista di un americano piuttosto che da quello di un tedesco, l’interiorità e la mancanza di concretezza di Benjamin sono ciò che lo rendono apprezzabile. In particolare, la Sontag si sofferma sulla melanconia di Benjamin, sul suo temperamento saturnino che informa il suo lavoro così come la sua biografia: «I suoi progetti più importanti…non possono essere pienamente compresi se non si coglie quanto essi dipendano da una teoria della melanconia». Questa melanconia, che lo rese inadatto alla vita, è anche quello che rese Benjamin l’interprete perfetto di un’epoca di catastrofe: «Sentiva di stare vivendo in un tempo in cui ogni cosa di valore era l’ultima del suo genere». Se la Arendt definisce sé stessa in opposizione a Benjamin, la Sontag chiaramente si identifica con lui come l’intellettuale archetipico.
Dopo tanta mitologizzazione e appropriazione, il sottotitolo di Walter Benjamin: A Critical Life, la nuova biografia di Howard Eiland e Michael W. Jennings, risulta come una benvenuta nota di obiettività (all’inizio gli autori sferrano un colpo al saggio della Sontag: «è fuorviante caratterizzarlo, come alcuni influenti trattati di lingua inglese hanno fatto, come una figura puramente saturnina e ripiegata su sé stessa»). La vita di Benjamin fu una vita critica perché era la vita di un critico, ma anche questo libro è una vita critica, in quanto presenta il suo soggetto con una certa obbiettività e distacco. «Questa biografia mira a un trattamento più esaustivo procedendo in maniera rigorosamente cronologica, concentrandosi sulla realtà di tutti i giorni da cui gli scritti di Benjamin emergono, e fornendo il contesto storico e intellettuale dei suoi lavori più importanti».