Critical Mass di James Wolcott è, tra le altre cose, una guida attraverso la selva di YouTube. Un modo per leggere questo libro è di fronte allo schermo del computer in cui molti dei soggetti di Wolcott, così memorabilmente catturati dalla sua prosa grottesca, possono essere vissuti di prima mano. Egli è il critico più importante dello spettacolo contemporaneo, che fa incontrare il suo stesso stile sovraccarico con i momenti salienti di quarant’anni di televisione, musica pop, libri e film. Egli scrive ugualmente bene di Philip Larkin e di Telly Savalas, di Bob Dylan e della sitcom Quattro donne in carriera. Egli conosce i canali segreti per mettere in relazione Mort Sahl[1] con Alexander Haig[2] e i Kennedy. L’attenzione di Wolcott vaga in maniera naturale da mezzo a mezzo, poiché dovunque guardi trova la stravaganza e, dentro la stravaganza, la tristezza, la noia, e la solitudine che essa è mirata a mascherare.
Il suo soggetto ideale è la televisione in diretta, dove le manifestazioni di fragilità o di puntiglio spesso premiano lo spettatore paziente. Nel 2010, Jerry Lewis presentò il suo ultimo telethon, in cui era come di consueto in compagnia di varie celebrità per raccogliere denaro per la distrofia muscolare. Wolcott ha scritto il suo saggio sull’evento per il numero di settembre 2011 di ‘Vanity Fair’. È parzialmente un omaggio al ventesimo secolo e ai suoi scompigliati superstiti, tra cui la TV:
Attore fin dall’età di cinque anni, lo stesso Lewis incarna la fine di un ‘era protesa dal vaudeville a Las Vegas – l’ultimo principe clown sopravvissuto dell’intrattenimento da nightclub e l’ultimo mimo della farsa cinematografica. Il suo ex partner Dean Martin, quell’uvetta passa che travasava la sua voce canticchiante come da una brocca di caramello fuso, morì nel 1995 e fu il soggetto di una biografia scricchiolante e affettuosa da parte di Lewis…L’annunciatore spalla di Lewis per il telethon, Ed McMahon, i cui ingranaggi ed esuberanza sembravano immortali, è passato a miglior vita nel 2009. Il telethon sarà più corto di una maratona il prossimo Labor Day, essendo stato ridotto a sei ore dalle ventuno del passato. La sua durata precedente lo permeava di psicodramma e suspense finché Jerry, distrutto dalla fatica e dalla frustrazione, cominciava a riversare un pesantissimo senso di colpa su coloro che stavano seduti sui loro portafogli ed erano riluttanti a donare soldi.
«Parte del fascino di telethon», scrisse Harry Shearer nel 1979, e citato nel pezzo di Wolcott, «era l’opportunità di vedere questa meravigliosa operazione umanitaria divenire autocommiserevole e disgustosa con il passare delle ore». Gli spettatori che resistevano fino alle ore piccole potevano «contare su una furia veramente preoccupante».
Il pezzo sul telethon è qui uno dei tanti sull’attuale cultura di massa a cerchi concentrici, in cui si può facilmente trovare una traccia di vaudeville nel discorsetto della star del cinema nel telethon televisivo visto in una clip su YouTube; o un giro alla Henry Mancini dentro un motivo degli Steely Dan dentro un singolo hip-hop dei De La Soul. Il lettore ideale per questi reperti annidati uno dentro l’altro è qualcuno come Wolcott: un critico attento alle loro ironie, non un semplice sostenitore del nuovo. Oggi si possono vedere online centinaia di brevi clip dei telethon di Lewis, incluse molte in cui egli sembra bisbetico. Con Internet ogni cosa accade proprio nel nostro tempo, ma la TV, ci ricorda Wolcott, ci tiene prigionieri del suo tempo, dicendoci quando e per quanto a lungo noi potremmo soddisfare i nostri desideri. Quello che io ricordo di questi telethon è la rabbia delle persone che sentivano che i loro show preferiti erano stati sostituiti da Jerry Lewis, una rabbia che nessun abbonato ai servizi Hulu per vedere i programmi televisivi on-line oggi sentirà mai. Si può dire che il telethon, che trasformava il guardare la TV in una prova di resistenza (da cui il suo nome), era TV distillata. Sfiniva anche il suo produttore.
Il telethon è morto perché la televisione come network è morta, o quasi morta. Ma non è passato molto da quando è nata, come ci ricordano i talk show notturni, con i loro palcoscenici e direttori d’orchestra e rulli di tamburo e trovate alla vaudeville. Questi spettacoli, tutt’oggi assolutamente immutati, forniscono un crocevia culturale impareggiabile, e le collisioni a volte possono essere strabilianti. Guardate l’episodio del Dick Cavett Showin cui un’elegante e altezzosa Gloria Swanson osserva sulla sedia davanti a lei l’infilata traballante di sciarpe e braccialetti di Janis Joplin. O, se è per questo, l’episodio con Salvador Dalì e Satchel Paige.
I talk show hanno trasformato Marianne Moore e Tennesse Williams in celebrità televisive, e offerto a Orson Wells una scena nei suoi ultimi anni di vagabondaggio. Queste collisioni (di cultura alta e pop, di film e televisione, di generazioni e caratteri) si basano sulla confidenza con il mix culturale complessivo, una condizione impossibile, dice Wolcott, nell’Era Digitale, con il suo «drastico restringimento del quadro di riferimento dello spettatore». Ha ragione, e una prosa come la sua può amplificare questo quadro.
Wolcott, per me, qui è al suo meglio nei suoi pezzi a bordo ring in cui parla del «trono girevole» dei talk show, che fiorirono precisamente nel momento in cui, all’inizio degli anni ’70, l’idea di celebrità era sufficientemente elastica da coinvolgere George Harrison, Truman Capote e Twiggy. L’ospitalità enfatica dei conduttori, «che davano il benvenuto» ai loro «ospiti» in un surrogato di salotto, monta il dramma principale di ogni buon talk show: Quando e come sarà messa da parte questa compostezza e civiltà fasulle? Wolcott, da studente del Frostburg State College, pubblicò il suo primo pezzo importante: riguardava la notte in cui Dick Cavett «diede il benvenuto» al suo programma a Gore Vidal e Norman Mailer (si può trovare facilmente su YouTube). È come se Wolcott avesse aspettato ogni istante dei suoi diciannove anni la lite che ne seguì. Mailer e Vidal litigano sul fatto se il secondo avesse diritto di paragonare il primo (che dopotutto aveva una volta pugnalato sua moglie) a Charles Manson. Cavett e il terzo ospite – Janet Flanner, giornalista del ‘New Yorker’ – siedono cautamente in mezzo a di loro. Mailer implora il pubblico («Ora posso parlare con voi? Posso raggiungervi?») e poi esegue, come racconta Wolcott, «un’autodifesa di cinque minuti, un breve discorso che chiude la questione con brillantezza esistenziale»:
Fu un discorso che il miglior professor di inglese nel giorno migliore della sua vita non potrebbe fare, perché le sfumature nella voce di Mailer parlavano delle frustrazioni, delle vittorie, del logoramento nel perseguire la Grande Puttana, quella generatrice di dolore di un romanzo non inteso per essere scritto. La differenza tra un professore di inglese e Norman Mailer che descrive la ricerca dello scrittore è quella fra un corrispondente di guerra e uno stanco tenente esperto di battaglie che descrivono un assedio militare – uno scrive di pelle, l’altro di sangue.