Miles Ahead, film diretto da Don Cheadle.
GEORGE GRELLA JR., Bitches Brew, Bloomsbury, pp. 144, $ 14,95.
Nel 1975, Miles Davis mise giù la sua tromba e si ritirò dalle scene. Davis era famoso per i suoi silenzi drammatici durante le esibizioni: le note che sceglieva di non suonare erano significative tanto quanto quelle che suonava. Ma questo silenzio sarebbe durato quasi cinque anni, durante i quali scomparì quasi del tutto nella sua casa in mattoni rossi dell’Upper West Side. I suoi ospiti evocavano una macabra prigione brulicante di prostitute, spacciatori, ruffiani e grossi scarafaggi. Davis, che si era autonominato “Principe delle Tenebre” del jazz, in seguito confermò questi pettegolezzi con sfacciata soddisfazione nell’autobiografia del 1989, Miles, scritta con il poeta Quincy Troupe.
Ma a dispetto di tutta questa decadenza, vi era un’aura nobile, quasi monastica nel ritiro di Davis all’età di quarantanove anni, dopo una della più straordinarie carriere musicali del dopoguerra. Davis prese parte a quasi tutte le fasi dell’evoluzione del jazz fin dalla metà degli anni ’40. Nato nel 1926 in un’agiata famiglia di colore appena fuori East St. Louis, arrivò a New York alla fine del 1944. La motivazione ufficiale era quella di frequentare la Julliard, ma questa era un cortina di fumo per tranquillizzare il padre, un dentista che possedeva una fattoria di oltre 120 ettari.