Gli anni d’oro del cinema francese ribattezzati con il suo nome, quarantasei anni di carriera e novantasei film, un mito del cinema francese e non solo. Negli anni trenta, in America, grazie a film come Il Bandito della casbah e La grande illusione, [...]
Wikiradio costruisce giorno per giorno una sorta di almanacco di cose notevoli ed utili da sapere per orientarsi nella nostra modernità. Ogni puntata racconta un evento accaduto proprio nel giorno in cui va in onda, intrecciando il passato con il presente, la memoria storica con ciò che oggi essa significa per noi. Dalla storia all’economia, dal cinema alla scienza, la letteratura, il teatro, le arti visive, la musica, i grandi momenti che hanno segnato un punto di svolta raccontati da esperti, studiosi, critici, con spezzoni di repertorio, sequenze cinematografiche, brani musicali, in un articolato mosaico che vuole restituire agli ascoltatori tutti i significati possibili di un avvenimento.
A cura di Loredana Rotundo con Clementina Palladini, Lorenzo Pavolini e Roberta Vespa.
Gli anni d’oro del cinema francese ribattezzati con il suo nome, quarantasei anni di carriera e novantasei film, un mito del cinema francese e non solo. Negli anni trenta, in America, grazie a film come Il Bandito della casbah e La grande illusione, la sua popolarità è pari a quella di Humphrey Bogart. Ma è anche un patriota sincero e mentre il suo paese è occupato dai nazisti, non resiste nell’esilio dorato di Hollywood e si unisce alle truppe della Francia Libera di De Gaulle. Tutto questo è Jean Gabin, un attore monumentale o forse, semplicemente, un attore con la A maiuscola. Come diceva il suo regista e grande amico Jean Renoir, che scriveva per lui delle parti mormorate, perché a Gabin, diceva, «bastava un sussurro, la dove agli altri nemmeno un urlo sarebbe stato d’aiuto».
Jean Gabin (Jean-Alexis Gabin Moncorgé) nasce a Parigi il 17 Maggio del 1904, ma trascorre l’infanzia e l’adolescenza a Mériel, un piccolo paese a nord della capitale dove c’è un museo a lui dedicato. Vive in campagna, affidato alle cure della sorella maggiore e dei nonni, dato che entrambi i genitori hanno rotto con la tradizione contadina di famiglia e sono impegnati nel music-hall che a Parigi va per la maggiore. Jean non è affatto attirato dal mondo dello spettacolo, il suo sogno sarebbe diventare un macchinista ferroviere, cosa che gli riuscirà solo sul grande schermo grazie a Jean Renoir nel film L’angelo del male. Ma perde la madre a quattordici anni, lascia la scuola, trova lavoro come operaio, nemmeno specializzato, perché non ha un titolo di studio. Insomma fa una vita dura, ed è per questo che, suo malgrado, accetta la proposta del padre, il cui nome d’arte è Ferdinand Gabin, di fare un provino alle Folies Bergère. È il 1924, Parigi è pazza del varietà e affolla ogni sera i locali di Montmartre. Ferdinand Gabin ha ragione, suo figlio è un ottimo ballerino, canta e si muove sul palco con grande naturalezza, insomma, è un intrattenitore nato. Lo prendono subito, Jean assume il nome d’arte del padre a diciannove anni e sera dopo sera diventa una presenza fissa sulle scene di Montmartre. A dir la verità lui pensa di racimolare un po’ di soldi e tornare in campagna, ma l’incontro con Mistinguett, che è la regina del music-hall e che lo vuole al suo fianco al Moulin Rouge, segna il futuro di Gabin fino all’incontro con la settima arte. La sua ultima apparizione sulla scena del varietà è del 1930 nel ruolo di Arsène Lupin, e quel mondo che lascia repentinamente per darsi al cinema, lo ritroverà sul grande schermo grazie a Jean Renoir nel 1955; il film è French Cancan, un divertentissimo ritratto collettivo di un universo e di un decennio memorabili e Gabin, che ormai ha i capelli bianchi, vi interpreta il ruolo del fondatore del Moulin Rouge.
Il cinema sonoro, per forza di cose, è particolarmente attratto dagli attori di varietà, Gabin però possiede qualche cosa in più. La naturalezza che aveva sulla scena, di fronte ad un pubblico pagante ed esigente, l’ha anche davanti alla macchina da presa. È un talento speciale il suo, una sorta di grazia, che benedice ogni personaggio che sceglie di interpretare con un fiuto infallibile sotto la guida di tre grandi registi: Julien Duvivier, Jean Renoir e Marcel Carné. La carriera mitica di Jean Gabin si gioca tutta in un arco temporale brevissimo, cinque anni, dal 1935 al 1939, i così detti “Anni Gabin” appunto, durante i quali ogni film che lui interpreta diventa magicamente un classico. È il caso de Il bandito della casbah di Julien Duvivier, che è un pezzo di storia del cinema. Gabin è Pépé le Moko, un bandito che vive indisturbato nella casbah di Algeri finché non s’innamora di una turista parigina, abbandona il suo rifugio e si suicida per non finire nelle mani dell’ispettore Slimane. Tra Scarface e tragedia greca, Il bandito della casbah è allo stesso tempo un capolavoro, uno dei maggiori incassi mondiali dell’anno ed è anche il primo film che consacra internazionalmente il mito di Gabin, basti pensare che la Warner Bros realizza addirittura un cartoon ispirato a Pépé le Moko.
Pépé è in qualche modo il prototipo dei “Personaggi à la Gabin”: antieroe dei bassifondi con valori solidi, uomo del popolo che trasuda virilità e romanticismo in egual mistura che vorrebbe una vita semplice piena di amore e di amicizia, ma che corre inesorabilmente verso la sconfitta perché un destino spesso crudele, a volte beffardo lo aspetta sempre al varco. Nelle versioni successive, questo “personaggio-tipo”, perde le connotazione del gangster, ma accentua sempre di più quei tratti di romanticismo cupo e disperato in cui come in uno specchio si riflettono tutte le tensioni e il senso di morte che aleggiano nella Francia di quel periodo. La Francia degli anni ’30 infatti è ben diversa da quegli degli anni ’20, in cui Gabin aveva fatto il suo “tirocinio” nei templi del music-hall parigino, la crisi del ’29 arriva con tre anni di ritardo, ma i suoi effetti sono catastrofici: bancarotte eclatanti (come quella di Gaumont & Pathé nel mondo del cinema), il collasso della Citroën, gli scandali finanziari e la disoccupazione, le grandi manifestazioni di protesta dei lavoratori, la destra che monta con violenza. Parigi sta diventando una città pericolosa: nel 1930, le prime proiezioni de L’age d’or di Buñuel, vengono funestate da violente aggressioni da parti dei fascisti, che al grido di «Morte agli ebrei!» devastano la sala cinematografica, mentre cinque anni dopo, Léon Blum, futuro premier del Fronte Popolare rischia addirittura il linciaggio mentre passa in auto sul Boulevard Saint-Germain. Questo clima pesante, che attraversa l’intero decennio, si riverbera appieno sul grande schermo, solo la breve esperienza del Fronte Popolare sembra portare un po’ di speranza: in meno di due anni i lavoratori prendono fiato grazie ad alcune riforme, come l’aumento del salario minimo, delle ferie pagate e della settimana lavorativa a quarant’ore. E Jean Gabin, attraverso i suoi personaggi, sembra registrare con perfetto tempismo le oscillazioni d’umore del paese, e prima di cedere al pessimismo più nero può dare vita a figure meno disperate come l’operaio disoccupato de La bella brigata, un altro film di Duvivier, che insieme a quattro amici decide di aprire una trattoria, o come il ladro anarchico di Verso la vita di Jean Renoir (liberamente tratto da L’albergo dei poveri di Gor’kij) che prima salva un milionario dal suicidio, poi riesce a salvare la fanciulla di cui si è innamorato e con lei si avvia verso un futuro che pare pieno di speranze. Ma anche il tenente Maréchal de La grande illusione, il capolavoro di Renoir, un militare che fa del pacifismo e della solidarietà fra le diverse classi le sue regole di vita, e riesce a fuggire dal campo di concentramento.
Ma la realtà incalza, nel ’38 il Fronte Popolare si dissolve e la Francia sente di precipitare in un baratro, ed ecco che Gabin interpreta, uno dietro l’altro, i personaggi più disperati della sua carriera e forse dell’intero cinema francese. Ne L’angelo del male di Renoir, a cui molto deve Visconti per Osessione, è una macchinista ferroviere che si suicida dopo avere ucciso l’amante che gli aveva chiesto di uccidere il marito, ma è soprattutto nei due film di Marcel Carné, scritti da Prévert, che Gabin porta ai massimi vertici la mitologia del fallimento, che gli varrà l’accusa di disfattismo. Ne Il porto delle nebbie è un disertore che a Le Havre si innamora di una ragazza e perde la vita quando tenta di salpare in cerca di un futuro migliore insieme a lei; in Alba tragica è un operaio che in una serie di tragici flashback rievoca i momenti salienti della sua vita, tra cui l’omicidio del rivale in amore, prima di suicidarsi per non cadere nelle mani della polizia. Sono due capolavori del così detto “realismo poetico”, che pare quasi un ossimoro e che invece proprio Gabin riesce a condurre magistralmente, con la sua presenza scenica e il suo stile di recitazione. Il realismo è anche quello della sua fisicità possente e irriducibile, della sua gestualità solida e precisa, tutta giocata in sottrazione, della sua formazione fra campagna e music-hall, il cinema francese dovrà aspettare Gérard Depardieu prima di trovare sullo schermo un corpo d’attore simile, che nulla concede all’adolescenza, alla nevrosi, all’intellettualismo. La poesia del cinema francese degli anni ’30 sono anche gli occhi azzurri di Gabin, resi trasparenti dalle luci del set e dall’emulsione della pellicola, i suoi foulard annodati al collo, i suoi cappelli che subito individuano l’origine popolare dei personaggi, le sigarette fumate una dietro l’altra perché non ci sono fiammiferi in giro su cui contare. Quindi da una parte il peso specifico del reale e dall’altra l’esattezza del tratto poetico. Lo stile di Gabin è tutto qui, in perfetta armonia fra verità e stilizzazione.
La prima di Alba tragica si tiene a Parigi il 17 giugno 1939. La città verrà occupata dai tedeschi un anno e mezzo dopo, tre milioni di abitanti su cinque cercheranno di lasciare la capitale con ogni mezzo. Come in un gioco di specchi, l’alba tragica che l’operaio aspetta prima di suicidarsi, rievocando in una serie di flashback la sua vita, è l’alba di un intero paese braccato, assediato, senza vie d’uscita, un paese che aspetta la propria morte. Infatti in poco tempo le cose precipitano, la Francia entra in guerra nel novembre del 1939, Gabin viene richiamato alle armi, come fuciliere della marina. Sette mesi dopo il governo Petain chiede armistizio alla Germania, dando il via al periodo oscuro di Vichy, ma contemporaneamente da Londra, un generale senza esercito e senza soldi, Charles De Gaulle, lancia un appello alla resistenza. Ha inizio la storia della Francia Libera, a cui anche Jean Gabin prenderà parte, diventando un eroe nazionale sul campo di battaglia dopo essere stato il mitico antieroe del grande schermo prima della guerra.
Nell’inverno del 1941, Jean Gabin, non volendo lavorare per la Francia di Vichy, approfitta di un’offerta americana e scappa rocambolescamente, attraversando Francia, Spagna e Portogallo per raggiungere il porto di Lisbona. S’imbarca per New York con una bicicletta e una fisarmonica e negli Stati Uniti tra gli esuli ritrova gli amici registi Duvivier e Renoir, ma soprattutto incontra Marlene Dietrich in un cabaret di Manhattan chiamato “La vie parisienne”. Parigi è lontana, e al suo posto c’è una nostalgia diffusa. Per la Dietrich, che parla perfettamente il francese, Parigi è una seconda casa, per Ernest Hemingway che siede al suo tavolo, la Parigi degli anni ’20 è stata la “città di lezione”, e molti anni dopo ne farà un ritratto memorabile in Festa mobile, raccontando la stessa città in cui ha debuttato il giovane Jean Gabin, che ora fa il suo monumentale ingresso in un cabaret d’oltre oceano che sembra una copia sbiadita dei locali in cui ha mosso i primi passi.
La passione con Marlene Dietrich è immediata e travolgente, hanno molte cose in comune: sono delle grandi star internazionali, odiano Hitler, sono entrambi orfani del grande schermo dei loro paesi, sono esuli inquieti anche se corteggiati da Hollywood e seguono con apprensione le drammatiche vicende della guerra. Dopo un anno di convivenza a Los Angeles, nei pressi della Mecca del Cinema in una casa presa in affitto da Greta Garbo, le loro strade si dividono per l’impegno che li accomuna. La Dietrich si è già arruolata nell’esercito americano, Gabin che non sopporta più di «starsene con le mani in mano e di fare smorfie davanti alla macchina da presa», sono parole sue, decide di arruolarsi nelle forze libere di De Gaulle, che hanno sede anche a New York. Nell’aprile del 1943, nominato nostromo, si imbarca su un caccia francese verso il Nord Africa: combatterà su più fronti, e farà parte del contingente militare che entra nella Parigi liberata nell’agosto del 1944. Marlene Dietrich, che aveva rischiato più volte la vita per raggiungerlo sui campi di battaglia, lo aspetta tra la folla in festa.
Pluridecorato per i meriti di guerra, a metà anni ’40, Gabin si ritrova di colpo invecchiato. Il cinema francese non è più lo stesso, lui vorrebbe imporre la sua amata Marlene ai suoi amici Carné e Prévert per un ruolo nel film Mentre Parigi dorme, loro si oppongono e Gabin rompe il contratto: il suo ruolo va a un giovane Yves Montand, che renderà immortale la canzone “Les feuilles mortes” che Prèvert aveva scritto appositamente per il film. Per Gabin sono anni difficili, in cui anche la relazione con la Dietrich si sfalda. Progetta di ritirarsi in campagna, come in fondo aveva sempre desiderato. Sarà ancora Marcel Carné a tirarlo fuori da una crisi che rischia di essere fatale. Nel 1950 con La vergine scaltra, Gabin non solo ritrova Carné, ma incontra Georges Simenon. A parte qualche film riuscito come Grisbì di Jacques Becker, French Cancan di Jean Renoir, La traversata di Parigi di Claude Autant-Lara, sarà proprio il mondo di Georges Simenon a ridare corpo e slancio alla seconda parte della carriera cinematografica di Gabin.
Jean Gabin girerà dieci film tratti d’altrettanti romanzi dello scrittore belga, il primo è La vergine scaltra, che è un titolo prezioso per misurare il nuovo corso che prende la carriera di Gabin che all’epoca dimostra ben più dei suoi quarantasei anni. In questo film Gabin interpreta il ruolo di un piccolo borghese benestante, proprietario di un cinema e di una brasserie che conquista la ragazza di cui è innamorato non tanto con il carisma irresistibile di un tempo, ma proprio in virtù della sua agiatezza economica. Un personaggio lontanissimo dal proletario bello e ribelle che abbiamo conosciuto negli anni ’30, il Don Giovanni condannato dalla cattiva sorte, eppure l’universo di Simenon sembra fatto apposta per il maturo Jean Gabin: in fondo si tratta di storie ambientate in una Parigi popolare o in una provincia nordica nebbiosa, piovosa, dove il destino ancora una volta gioca la sua parte e travolge la quotidianità di persone semplici in modo netto, quasi neutrale. Il tocco umanistico di Simenon, il suo stile asciutto, la capacità di sintetizzare personaggi e ambienti in pochi tratti incisivi, sono tutti elementi che appartengono anche allo “stile Gabin”, e il talento dell’attore precocemente invecchiato, taciturno, impassibile ma sempre capace di imprimere una svolta all’azione con un semplice fremito della mascella, un sussurro, uno sguardo, ben si addice al personaggio più famoso di Simenon: il commissario Maigret.
Dal 1957 Gabin porta tre volte sul grande schermo il funzionario di polizia che seppellisce definitivamente l’indagine scientifica di Sherlock Holmes a colpi di psicologia del comportamento umano andando alla ricerca del perché di un delitto che trova le sue ragioni nel contesto sociale in cui è maturato. In fondo dietro Simenon, come dietro Gabin, c’è Dostoevskij: il dramma non riguarda mai solo le vittime, ma anche gli assassini. Nel 1958 è ancora un romanzo di Simenon a segnare la carriera di Gabin: La ragazza del peccato, di Claude Autant-Lara, la partner di Gabin è il nuovo sex-symbol del cinema francese: Brigitte Bardot.
Lui è un famoso avvocato di mezza età, lei una rapinatrice disposta ad offrire il suo corpo in cambio della difesa. L’avvocato s’innamora, vorrebbe lasciare la moglie, ma la giovane amante viene uccisa da un ex spasimante geloso. La ragazza del peccato è il film che segna la fine del mito di Gabin, che sembra non far più presa sulle nuove generazioni che ormai guardano all’emancipazione sessuale. La Nouvelle Vogue è alle porte e i registi ritengono Gabin un attore troppo ingombrante per loro, anche se Fino all’ultimo respiro di Godard deve non poco al Bandito della casbah, e il personaggio di Belmondo forse non esisterebbe senza Pépé le Moko. Nonostante ciò, Gabin continua a lavorare a pieno ritmo, talvolta incontrando sul suo cammino le nuove star: dopo la Bardot, nel 1962 è la volta di Belmondo in Quando torna l’inverno, ma è soprattutto l’incontro con Alain Delon, che all’epoca è già l’attore prediletto di Visconti, a segnare una svolta per Gabin, non solo sullo schermo, ma anche nella vita. Tra il 1963 e il 1973 girano insieme tre film: Colpo grosso al casinò, Il clan dei siciliani e Due contro la città. Sono titoli non memorabili, ma è un piacere vederli insieme anche perché, da padre a figlio, i due stringono un rapporto di autentica amicizia: quando Gabin muore, il 15 novembre 1976, è proprio Delon, ex militare della marina come lui, a sbrigare tutte le formalità necessarie a far sì che le ceneri dell’amico vengano disperse al largo di Brest da una nave della marina militare secondo la volontà di Gabin. E l’ultimo incontro pubblico di Gabin e Delon risale a pochi mesi fa: in una trasmissione di fine anno, in cui Delon è la star, un pittore compone il ritratto di un uomo misterioso. Sullo sfondo di una tela nera che sembra lo schermo del cinema, in una manciata di minuti appaiono i tratti del viso di Gabin, mentre la voce calda e sensuale dell’attore canta “Maintenant Je Sais”, Alain Delon, del tutto ignaro dell’omaggio è sconvolto: vis-a-vis con il volto dell’amico che sembra riaffiorare dalle nebbie del tempo, in diretta televisiva a pochi minuti dal 2013, non riesce a trattenere le lacrime: piange senza vergogna, piangono tutti nello studio tv, sono tutti in piedi. Delon raggiunge il ritratto dell’amico, lo guarda e al culmine della commozione mormora: «È tutta la mia vita».