Uomini e Profeti è la trasmissione di cultura religiosa di Radio3. Il suo obiettivo è quello di far conoscere le esperienze, le vicende, i linguaggi, le figure, i grandi testi delle tradizioni religiose di tutti i tempi, al di fuori di ogni dimensione confessionale, ma nello stesso tempo considerando il fatto religioso come un grande vettore della storia e della sapienza dell’umanità. In un dialogo critico con autori, testi, interpreti dei diversi mondi religiosi (e non solo religiosi), si potrebbe dire che Uomini e Profeti vuole “guardare il mondo con gli occhi delle fedi e le fedi con gli occhi del mondo”. Dal 1993 la trasmissione (che nasce con diversa formula già una decina di anni prima) si articola in un doppio spazio settimanale: quello del sabato dedicato ai racconti e alle storie delle diverse esperienze di fede nel mondo contemporaneo, quello della domenica, dedicato alle grandi questioni che intersecano la dimensione religiosa. Si ricordano in particolare la lettura integrale della Bibbia, e altre letture di testi fondativi delle tradizioni.
Autrice del programma è Gabriella Caramore, Paola Tagliolini curatrice, Ornella Bellucci regista, Cristiana Munzi consulente musicale.
Alla conduzione si alternano Benedetta Caldarulo e Irene Santori in Storie (il sabato), Gabriella Caramore in Questioni (la domenica)
Uomini e Profeti: Razzismo negli Stati Uniti: che cosa fanno, e potrebbero fare, le comunità religiose.
Benedetta Caldarulo. Buongiorno a tutti gli ascoltatori da Benedetta Caldarulo. In questa puntata di Uomini e Profeti spostiamo l’attenzione dai fenomeni di razzismo che si stanno manifestando in Europa e di cui ci stiamo occupando in questi ultimi mesi, e andiamo negli Stati Uniti, dove questo fenomeno ha radici antiche, anche se l’America ha visto i momenti gloriosi della lotta per i diritti civili. Basti ricordare la figura di Martin Luther King, raccontata nel film di Ava DuVernay, Selma, in questi giorni nelle sale italiane, che ci ricorda la storia di King, soprattutto la storia della Marcia di Selma del 1965. Ma gli Stati Uniti sono anche un paese in cui si stanno manifestando rigurgiti di razzismo, anzi il fenomeno non si è mai completamente spento. Ma non sempre viene messo a fuoco, nemmeno dalle comunità religiose. L’idea di affrontare questo argomento ci è venuta da un servizio che abbiamo letto su ‘Jesus’, una rivista di inchieste e dibattiti sull’attualità religiosa che approfondisce con uno sguardo ampio gli argomenti religiosi con grande correttezza di informazione e assenza di dogmaticità – anche sugli argomenti più scottanti. Nell’ultimo numero della rivista è apparsa un’inchiesta di Chiara Basso, giornalista freelance che vive a New York, che offre uno sguardo diretto sulla questione. È accaduto che dopo l’uccisione di due afroamericani questa estate, le ennesime da parte della polizia, e la mancata incriminazione dei responsabili, in America si è riacceso il dibattito sulle condizioni di emarginazione in cui continuano a vivere i neri americani. In questo dibattito, e nelle proteste che sono seguite, dalla comunità cattolica si levano e cominciano a farsi sentire alcune voci critiche e decise che chiedono un profondo riesame di coscienza sul ruolo dei cattolici nella questione razziale in America. Abbiamo raggiunto al telefono Chiara Basso a New York. Ricordiamo brevemente gli eventi, ovvero le recenti uccisioni di due giovani afroamericani da parte della polizia nell’estate del 2014.
Chiara Basso. Ci sono stati diversi casi di afroamericani uccisi dalla polizia nel corso degli anni, ma quelli che hanno maggiormente colpito l’opinione pubblica sono stati due: il caso di Eric Garner un uomo di quarant’anni, padre di sei figli, di Staten Island, New York, morto probabilmente a causa di un soffocamento durante un fermo di polizia, e quello di Michael Brown, caso che ha creato ancora più scalpore: un ragazzo di diciotto anni di Ferguson, Missouri, non lontano da St. Louis, ucciso a colpi di pistola da un poliziotto bianco. In entrambi i casi i poliziotti che hanno causato la morte di queste due persone sono stati posti sotto il giudizio di un Gran Giurì che doveva stabilire se sarebbero poi dovuti comparire davanti a un tribunale per essere giudicati. In entrambi i casi questo non è successo, i Gran Giurì non hanno ritenuto che i due poliziotti dovessero essere messi sotto processo. Questi due fatti hanno scatenato manifestazioni e proteste, perché sono stati considerati come la goccia che ha fatto traboccare il vaso, non solo per la comunità afroamericana, ma anche per i molti bianchi e cittadini di altre etnie che non tollerano più questa discriminazione tra bianchi e neri di fronte alla giustizia. I manifestanti hanno invaso le strade e le proteste a volte sono diventate violente, come nel caso di Ferguson, in cui sono stati provocati incendi e miei colleghi giornalisti che erano sul luogo sono stati vittime di aggressioni. La rabbia aveva raggiunto livelli assurdi, e in questo scenario si sono sentite le voci di molti leader religiosi di fedi diverse.
Benedetta Caldarulo. Ecco, questo per inquadrare i fatti. Per rispondere a quale domanda è nato il suo reportage?
Chiara Basso. Ascoltando gli inviti dei leader religiosi a protestare soprattutto in maniera pacifica, e a cercare di superare il razzismo che è comunque una piaga molto profonda in questo paese, mi sono chiesta che cosa stesse facendo al riguardo la chiesa cattolica, o che cosa voglia fare. Un conto è limitarsi a dire “queste cose non si devono fare” e un conto è agire, così ho capito di non essere l’unica persona a porsi questa domanda e ho scoperto che un teologo, Tobias Winright, si era posto la stessa questione. Winright ha scritto una lettera, poi sottoscritta da oltre quattrocento teologi e rappresentanti della chiesa cattolica, in cui invitava i cattolici ad agire, a non essere più semplici spettatori passivi. Ha ricordato le parole di Martin Luther King con cui invitava i cristiani moderati a non limitarsi a difendere lo status quo in nome della sicurezza, ma di divenire difensori dei diritti civili.
Benedetta Caldarulo. Tracciamo un breve ritratto di questo teologo, è un bianco innanzitutto?
Chiara Basso. Tobias Winright è bianco, è docente di Teologia all’Università di Saint Louis e quindi ha potuto seguire da vicino i fatti che hanno accompagnato l’uccisione di Michael Brown. È oltretutto un ex poliziotto e proviene da una famiglia della classe operaia, quindi non gli si può nemmeno muovere l’accusa di avere una visione di questi fatti da bianco privilegiato. Winright da ex poliziotto sa benissimo che tipo di clima si respiri all’interno della polizia, io stessa ho avuto modo di intervistare poliziotti afroamericani che mi hanno raccontato di essere stati testimoni di ingiustizie compiute dai loro colleghi bianchi.
Benedetta Caldarulo. Quindi Tobias Winright ha chiamato a sé le coscienze cristiane e cattoliche e attorno lui si è formato un gruppo di persone che ha raccolto la sua petizione.
Chiara Basso. Esatto, Winright ha anche ricordato le parole di Papa Francesco nell’esortazione apostolica ‘Evangeli gaudium’ con cui ha esortato i fedeli, come aveva detto Martin Luther King decenni prima, a non limitarsi a difendere la propria sicurezza ma a preoccuparsi anche dell’esclusione e dell’ineguaglianza presenti nella società, che sono molto spesso alla base della violenza. Durante la mia inchiesta ho avuto occasione di parlare con un vescovo afroamericano che mi ha spiegato come non sia facile per un afroamericano essere cattolico in America. Lui stesso non proviene da una famiglia cattolica. Ciò è in parte dovuto alla storia stessa della chiesa cattolica americana che molto raramente nel passato si è espressa contro lo schiavismo o a favore delle lotte per i diritti civili degli anni ’60. Una persona di colore che entra in una chiesa cattolica si trova davanti a una visione, tra virgolette, bianca della chiesa, con i suoi santi bianchi e il riferimento a un Dio bianco. In America, non solo nel mondo cattolico, ma anche nel mondo protestante, esistono chiese bianche e chiese nere.
Benedetta Caldarulo. Quindi chiese frequentate quasi esclusivamente da bianchi e altre frequentate da neri. Questo avviene in tutti gli stati?
Chiara Basso. In alcuni stati può essere meno evidente, ma anche qui a New York, soprattutto in alcune zone del Queens, esistono delle chiese pentecostali completamente nere. Nel corso del mio reportage ho avuto modo di parlare con una suora cattolica di Washington, sister Simone Campbell (molto famosa in America in quanto leader delle “Nuns on the Bus”, le suore sull’autobus che nel 2012 e nel 2013 hanno attraversato tutta l’America per sensibilizzare l’opinione pubblica sui temi dell’immigrazione e dell’ineguaglianza sociale), che mi ha confermato come anche nella capitale americana la differenza tra bianchi e neri sia ancora molto marcata, in quanto la comunità afroamericana molto numerosa vive in zone circoscritte. Anche a Washington troviamo chiese nere e chiese bianche. Spesso nelle chiese bianche i fedeli non si accorgono del problema del razzismo, perché non ce l’hanno sotto gli occhi, non fa parte della loro vita quotidiana. Anche per questo motivo molti bianchi americani dopo le proteste sono, per così dire, caduti dall’albero, hanno scoperto che il problema del razzismo contro i neri esiste ancora.
Benedetta Caldarulo. Sembra che ci sia stata una vera e propria rimozione del problema nella coscienza della maggioranza dei bianchi americani…
Chiara Basso. Me lo ha confermato anche Simone Campbell, che mi ha confidato di avere scoperto che alcuni suoi antenati erano stati coinvolti nel commercio degli schiavi, e ovviamente per lei questo è stato uno shock. C’è un’implicita, forse non del tutto cosciente, rimozione dalla coscienza degli americani bianchi, che cercano in questo modo di non affrontare il problema che non viene mai risolto. Per questo motivo il vescovo afroamericano Edward Braxton in una lunga lettera di riflessione suggerisce di avviare un percorso per prendere coscienza del problema del razzismo e poi agire: pregare, ascoltare, imparare, pensare e agire. Quindi invita alla preghiera, ad ascoltarsi gli uni con gli altri, ad andare a parlare anche con i poliziotti del proprio quartiere. Il vescovo Braxton ha scritto una lettera molto equilibrata, in cui non prende le difese di una parte o dell’altra. Sa benissimo quali sono i problemi che devono affrontare i poliziotti, che spesso si trovano a prendere decisioni in una frazione di secondo. Spesso i pregiudizi e la violenza sono scatenati dalla non conoscenza reciproca, quindi conoscersi gli uni con gli altri è fondamentale. Braxton suggerisce anche di studiare la storia su cui è basata questa incomprensione, di leggere le lettere scritte negli anni ’70 e ’80 dai leader cattolici che si fecero carico del problema del razzismo e anche di rivedere alcuni film, come per esempio Via col vento, realizzato settantacinque anni fa, e 12 anni schiavo o Selma, film attuali, per confrontarli e vedere come sia stato affrontato in maniera differente il tema della schiavitù in entrambi i casi.
Benedetta Caldarulo. Il film Selma è nelle sale italiane in questi giorni ed è diretto da una regista afroamericana, Ava DuVernay, che in esso ricostruisce, in parte, la storia di Martin Luther King. Pensando a King viene da chiedersi cosa sia cambiato da allora, perché se è vero che c’è stata un’evoluzione nella coscienza civile degli americani e c’è stata la fine del segregazionismo, è anche vero che la situazione non pare cambiata di molto.
Chiara Basso. Effettivamente no. Come diceva anche il vescovo Braxton, nemmeno con un presidente nero (che tra l’altro viene considerato un nero a metà, perché figlio di una madre bianca, cresciuto in una famiglia bianca frequentando le scuole migliori, e quindi non rappresentativo della figura dell’uomo di colore e proveniente dal ghetto), le cose sono molto cambiate. Il processo è ancora lungo. Sia il vescovo Braxton che sister Campbell hanno detto che ci sarà sicuramente un’evoluzione, anche all’interno della chiesa cattolica, con velocità diverse nelle varie situazioni, ma un cambiamento prima o poi ci sarà, soprattutto dopo gli ultimi eventi.
Benedetta Caldarulo. Come ha reagito la chiesa cattolica all’appello di Winright e alla lettera del vescovo Braxton?
Chiara Basso. Ha reagito in maniera diversa. Questa presa di coscienza del razzismo è ancora in atto, e non si può pensare di poter vedere dei cambiamenti dall’oggi al domani. Non c’è ancora un movimento di protesta unico e coeso.
Benedetta Caldarulo. Ma intanto esponenti del mondo cattolico sono scesi in campo con decisione insieme a persone di altre fedi.
Chiara Basso. Sì, per ora c’è una presa di coscienza che è sicuramente un primo passo importante. Ovviamente non è un problema risolvibile da parte delle sole organizzazioni religiose, ci sono problemi politici e soprattutto di differenti livelli educativi. È un problema enorme, che non è stato risolto per secoli, fin dall’abolizione dello schiavismo, quindi non è pensabile che possa essere risolto in pochi mesi. Certamente però si è aperto un nuovo capitolo.
Benedetta Caldarulo. Lei vive da cinque anni a New York e ha viaggiato in lungo e in largo per tutti gli Stati Uniti, quali sono le storie con cui è venuta a contatto in questi anni?
Chiara Basso. Ho vissuto per molto tempo ad Harlem, un quartiere nero, e adesso vivo a Washington Heights, un quartiere prevalentemente latino, quindi ho ben sotto gli occhi la situazione. Mi è capitato di vedere applicare più di una volta lo stop and frisk, una pratica molto discussa qui a New York: lo stop and frisk è la pratica che, in nome della sicurezza, consente alla polizia di fermare qualunque persona venga ritenuta sospetta. Ma questo non coinvolge tutti i cittadini, naturalmente i poliziotti non fermano per dei controlli l’uomo d’affari a Wall Street, anche se in teoria potrebbero farlo, ad essere fermati sono prevalentemente cittadini di colore e latini, che magari non stanno facendo assolutamente nulla di illegale. È un’operazione molto umiliante, visto che un normale cittadino viene trattato come se fosse un criminale. Nei viaggi su e giù per l’America, fatti per avere l’occasione di vedere questo paese al di fuori di New York, che non è una città ideale per descrivere l’America ma è una città a parte rispetto alle altre, ho visto una separazione netta tra bianchi e neri. A New York è abbastanza normale vedere delle coppie miste ad esempio, mentre in altri luoghi se ne vedono poche, naturalmente ci sono ma non sono di certo così visibili e il dialogo tra comunità bianca e nera sembra essere ancora molto difficile.
Benedetta Caldarulo. Monsignor Braxton riesce ad essere ascoltato in quanto vescovo, o è stato invece emarginato?
Chiara Basso. Non ne abbiamo parlato apertamente durante l’incontro che ho avuto con lui. Monsignor Braxton concede raramente delle interviste, ma ha accettato perché ci teneva che la sua lettera venisse letta e che se ne parlasse anche in Italia, per questo motivo non mi sono voluta sbilanciare troppo, ma facendo delle ricerche sulla sua storia ho scoperto che quando venne trasferito alla diocesi di Belleville, in Illinois, vi furono delle proteste da parte di alti prelati. È sicuramente una figura scomoda, che va controcorrente, che non fa parte del mainstream, della corrente principale della chiesa cattolica. Lui stesso ha subito delle discriminazioni razziali in passato.
Benedetta Caldarulo. Per tornare a Martin Luther King, al suo messaggio e alla sua figura, c’è qualcuno oggi negli Stati Uniti che ha in qualche modo preso il suo posto nella lotta?
Chiara Basso. Mi sembra che agli attuali movimenti, soprattutto da Occupy Wall Street in poi, manchi un vero leader. Ed è, io credo, un problema, perché come si è visto in Selma, il ruolo del leader in passato è stato fondamentale, anche per mantenere pacifiche le proteste. Allora c’era molta violenza, nel corso della mia inchiesta ho avuto modo di parlare con chi marciava con King in quei giorni, tra cui Richard Morrison, un ex prete cattolico di Chicago, che subì violenze. Spararono a lui e a un altro prete, che morì, perché stavano accompagnando delle ragazze di colore a registrarsi per il voto. Morrison mi ha parlato della potenza del carisma di King e di come lui stesso fosse stato incoraggiato dall’allora arcivescovo di Chicago ad unirsi alle lotte del movimento per i diritti civili, mentre altri preferirono non accogliere l’appello di King, soprattutto negli stati del Sud, per evitare problemi con le comunità di fedeli bianchi. Quindi possiamo vedere come la chiesa fosse allora molto divisa al suo interno, mentre oggi la divisione non è più così netta, ma ci sono delle persone più attive che cercano di affrontare questo problema in maniera ferma e altre che invece si limitano a invitare le persone a prendere coscienza del problema.
Benedetta Caldarulo. Speriamo allora che questo cammino, per quanto lungo, possa essere proficuo e che porti buoni frutti. Ringraziamo e salutiamo Chiara Basso, buona giornata.
Chiara Basso. Grazie e buona giornata a lei.
Benedetta Caldarulo. Continuiamo a parlare del problema del razzismo negli Stati Uniti e delle sue conseguenze con il nostro secondo ospite qui con noi in studio a Roma, Carlo Santoro della Comunità di Sant’Egidio, basata a Roma ma che da oltre quarant’anni si spende in tutto il mondo per i più poveri, per gli emarginati e per promuovere la pace nel mondo. Carlo Santoro, lei ha lavorato e lavora ancora molto per Sant’Egidio negli Stati Uniti, e allora vorrei chiederle cosa pensa della situazione descrittaci dalla giornalista di ‘Jesus’?
Carlo Santoro. Io mi occupo principalmente della pena di morte, e dal punto di vista del razzismo la pena di morte fa da cartina di tornasole. I due temi sono strettamente connessi tra di loro perché i bracci della morte in America vedono un’altissima percentuale di afroamericani e di ispanici. Questo perché le persone rinchiuse nei bracci della morte sono persone che spesso non hanno le risorse economiche per una difesa adeguata. Ci finiscono anche i disabili e gli stranieri, basta andare in Texas, fuori dai bracci della morte, per vedere file enormi costituite dalle famiglie di detenuti messicani. Negli Stati Uniti chi ha le risorse economiche sufficienti, pur avendo compiuto un delitto, riesce a farsi difendere in modo più efficace dai suoi legali. Un caso famoso è quello di O.J. Simpson, star del football americano che riuscì, grazie ai suoi avvocati, ad essere scagionato dall’accusa di aver ucciso la moglie e l’amante, nonostante fosse stato colto in flagranza di reato.
Benedetta Caldarulo. Le due problematiche, razzismo e pena di morte, sono dunque strettamente connesse. La Comunità di Sant’Egidio ha cominciato ad occuparsi della questione della pena di morte grazie alla storia di un ragazzo, Dominique Green. Ci può raccontare la sua storia?
Carlo Santoro. Nel 1997, questo ragazzo afroamericano che si trovava da poco nel braccio della morte in Texas, scrisse una lettera a un giornale italiano. Una delle nostre collaboratrici, all’epoca anche lei molto giovane, gli rispose, dando così inizio ad uno scambio di lettere. In seguito sono andato, insieme ad altri, a trovare Dominique diverse volte e abbiamo avuto modo di scoprire una realtà per noi quasi del tutto sconosciuta.
Benedetta Caldarulo. Siete letteralmente entrati nella realtà di questi detenuti, non solo con lo scambio di lettere. Si sono creati anche dei legami di amicizia e di affetto tra voi e loro, entrando anche nel luogo dove sono reclusi
Carlo Santoro. Si sono creati legami molto forti, soprattutto con Dominique Green e con Johnny Paul Penry, un detenuto bianco mentalmente disabile condannato a morte sulla cui vicenda la Corte Suprema è intervenuta due volte. Alla fine è riuscito ad ottenere la grazia, mentre nel caso di Dominique Green non siamo riusciti ad impedire che venisse giustiziato. Grazie a questa esperienza siamo riusciti a capire che il tema della pena di morte poteva essere affrontato in maniera globale, occupandoci non solo della realtà degli Stati Uniti ma anche di quella degli altri paesi che applicano la pena di morte.
Benedetta Caldarulo. Per concludere su Dominique Green, possiamo dire che non siete riusciti a salvarlo dalla pena di morte per poco, visto che subito dopo la sua esecuzione in Texas entrò in vigore un periodo di sospensione delle esecuzioni.
Carlo Santoro. Vennero sospese le esecuzioni per un periodo abbastanza lungo ma Green purtroppo venne giustiziato nel 2004. Riuscimmo a portare le sue ceneri a Roma secondo le sue ultime volontà, perché non voleva essere sepolto in Texas, lo stato che l’aveva ucciso. Dominique era cambiato molto durante la permanenza nel braccio della morte: al suo arrivo era molto violento, con una forte rabbia dentro e l’atteggiamento violento era il tentativo di reagire alla situazione in cui era cresciuto. Nel corso degli anni è diventato un leader pacifico, che cercava di aiutare gli altri detenuti condannati a morte. Chiaramente la situazione di chi è rinchiuso in un braccio della morte è molto difficile, spesso i detenuti arrivano a soffrire di disturbi psichici, perché trascorrono 23 ore al giorno rinchiusi in uno spazio molto ristretto e hanno una prospettiva di morte certa.
Benedetta Caldarulo. La storia di Dominique è emblematica per il fatto che, come veniamo a sapere dalle sue lettere, il suo cammino di evoluzione all’interno del carcere lo portò ad ascoltare e dare aiuto agli altri detenuti, portando sempre un messaggio di speranza e di pace. La sua storia quindi è uno strumento importante per capire come possono cambiare le persone all’interno del carcere.
Carlo Santoro. Dominique aveva preso coscienza del fatto che l’esperienza nel braccio della morte disumanizza i detenuti, lui stesso si rappresentava, nei disegni che ha lasciato, come un animale in gabbia. Ed era proprio lo Stato che attuava questa disumanizzazione: per mettere a morte un uomo questo non deve essere più una persona, ma un animale. Dominique lo aveva capito molto bene, ed è lui che ce l’ha spiegato e che voleva che noi portassimo il suo messaggio di pace e di riconciliazione, soprattutto ai giovani.
Benedetta Caldarulo. Da questo incontro con Dominique Green è partito il vostro lavoro continuo con i detenuti, lavoro che avete svolto su due fronti: sul fronte politico con una battaglia civile e legale contro la pena di morte, sul fronte, diciamo così, umanitario, con l’impegno a stare vicino a queste persone attraverso le lettere e le visite in carcere, intrattenendo con loro relazioni di amicizia. Quante corrispondenze avete al momento?
Carlo Santoro. La Comunità di Sant’Egidio al momento ha circa un migliaio di corrispondenti, non solo negli Stati Uniti ma in tutto il mondo, e intratteniamo anche corrispondenze con persone che sono riuscite a uscire dal braccio della morte dimostrando la loro innocenza. Questo elemento è importante perché può servire a far capire anche agli americani favorevoli alla pena di morte che la giustizia non è perfetta, perché molte persone sono state riconosciute innocenti dopo la loro esecuzione.
Benedetta Caldarulo. Ricorda una persona in particolare con cui ha tessuto un contatto in questi anni?
Carlo Santoro. In particolare ricordo la storia di Paula Cooper, una ragazza afroamericana di quindici anni che nel 1986 uccise un’anziana catechista a Gary, in Indiana – uno dei ghetti neri molto simili a quelli del Missouri. Paula divenne molto famosa anche nel nostro Paese, e in Italia vennero raccolte circa un milione di firme per evitare la sua condanna a morte. Di lei si occupò anche il Papa e anche il nipote della vittima, Bill Pelke, fece di tutto per evitare che venisse giustiziata. Paula riuscì ad ottenere la grazia, e questo, a mio avviso, fu un primo esempio di globalizzazione positiva, che vide molte persone di diversi paesi unirsi per una causa comune. Riprendendo le parole di Papa Francesco che incita tutti ad andare contro la “globalizzazione dell’indifferenza”: è questo che cerchiamo di fare, sottolineare che quello che accade dall’altra parte del mondo ci riguarda personalmente e che ci si può impegnare per questo.
Benedetta Caldarulo. Cosa ha rappresentato nella sua vita la relazione con questi condannati?
Carlo Santoro. Anzitutto è un coinvolgimento molto forte, già solo avere una corrispondenza con queste persone è un’esperienza molto forte, che richiede sensibilità e che significa soprattutto provare a dare speranza a persone che spesso sembrano senza speranza o che sembrano non avere alcuna prospettiva. Entrare fisicamente nel braccio della morte significa anche entrare in contatto con paradossi evidenti: come ad esempio il divieto di fumare all’interno del braccio della morte per rispettare la salute dei detenuti, o come la visita al museo del braccio della morte in Texas dove vengono mostrati i dati che certificano che il Texas è lo stato in cui si eseguono più pene capitali del mondo, dove ti mostrano il certificato di morte dei condannati in cui si legge che il detenuto è morto per omicidio. Si resta anche colpiti dal contatto umano con il detenuto che si incontra, perché ci si trova davanti a persone come te. È stata un’esperienza sconvolgente perché, pur facendo parte da molto tempo della Comunità di Sant’Egidio, e quindi avendo già incontrato persone che soffrivano molto e avendo già assistito e tenuto per mano una persona che stava per morire, non avevo però mai conosciuto un ragazzo di ventidue anni perfettamente in salute, di cui avevo coscienza che avrebbe potuto essere giustiziato a breve. È un’esperienza assolutamente unica e sicuramente non facile, noi invitiamo naturalmente le persone ad unirsi a noi, ma li avvertiamo che non è una cosa semplice e che richiede molta continuità: non si può pensare di aprire un dialogo con un condannato a morte per poi non portarlo avanti. Bisogna accompagnarli a lungo, fino alla fine.
Benedetta Caldarulo. Vediamo adesso il piano più politico-legale portato avanti dalla vostra comunità con, per esempio, la raccolta di firme per una moratoria universale presentata all’Onu nel 2007. Come stanno le cose con questa moratoria?
Carlo Santoro. Ci sono molti stati, soprattutto gli stati africani, che hanno abolito de facto la pena di morte, in cui da almeno dieci anni non ci sono esecuzioni. Da un lato abbiamo iniziato con il creare una lobby che spingesse gli stati che prevedevano la pena di morte ad abolirla, e dall’altro abbiamo cominciato a creare una lobby simile all’interno dell’Onu affinché le mozioni già presentate per una moratoria universale sulla pena di morte diventassero più pressanti per i vari stati. Spesso gli effetti sugli stati delle risoluzioni dell’assemblea generale dell’Onu non sono così visibili. Indubbiamente c’è un trend positivo, sia nelle votazioni che nell’atteggiamento dell’Onu stessa. Ad esempio cinque anni fa per la prima volta un segretario generale dell’Onu ha presentato un documento sulla pena di morte nel mondo. Fino a poco tempo fa c’era imbarazzo ad affrontare questi temi davanti a paesi come gli Stati Uniti e la Cina, ma ora, soprattutto grazie all’azione dell’Unione Europea, le cose stanno cambiando. Anche all’interno degli Stati Uniti stiamo assistendo a un trend molto positivo: sempre più stati hanno applicato la moratoria sulla pena di morte e attualmente diciotto su cinquanta l’hanno abolita.
Benedetta Caldarulo. Cos’è la vostra iniziativa “Città per la Vita”?
Carlo Santoro. Ogni 30 novembre, data dell’abolizione della pena di morte nel Gran Ducato di Toscana nel 1786, il primo stato al mondo ad abolire la pena di morte, ogni città italiana può scegliere di illuminare un suo monumento per chiedere l’abolizione della pena di morte in tutto il mondo, quest’anno il comune di Roma ha aderito all’iniziativa illuminando il Colosseo.
Benedetta Caldarulo. Un’altra iniziativa molto interessante portata avanti dalla Comunità di Sant’Egidio sono gli incontri con i “testimoni” all’interno delle scuole, anche questo può essere uno strumento di sensibilizzazione molto forte, soprattutto per i ragazzi.
Carlo Santoro. Assolutamente sì, in questi incontri invitiamo a parlare sia gli ex condannati a morte che i familiari delle loro vittime, che testimoniano la contrarietà alla pena di morte, il loro essere contro la condanna dei responsabili anche quando hanno ucciso loro un parente, un figlio o un genitore. Facendo questo danno un segnale di cosa sia il vero perdono.