FILOSOFIA: Giovanni Casa recensisce l’ultimo libro di Régis Debray, Jeunesse du sacrè, in cui l’autore si domanda: “Cosa gli uomini definiscono come sacro? Dove, quando e perché?” Esiste un punto in comune tra i miti di ieri, i miti di oggi, la “Dichiarazione dei diritti dell’uomo”, il viso del profeta Maometto, il palazzo di giustizia, il monte Fuji, la Gioconda, la clorofilla, l’infanzia, il cimitero, ecc.?” In verità la lista è molto più lunga perché “ci sono più cose in cielo e in terra di quanto ne sogni la filosofia”.
L’irruzione nel mondo psichico dell’incomprensibile e dell’inafferrabile nel mondo empirico, corrisponde all’ambigua esperienza del sacro. Per accattivarsi la natura e vincere la morte, per diminuire l’incertezza e la precarietà, l’uomo sacralizzando si protegge con divieti necessari o utili; e per ricucire ciò che il tempo strappa, rivelando con dei simboli, vela luoghi e racconti, personaggi e cose. Per pulsione di sopravvivenza, in ogni società che mira alla durata, il sacro è sempre presente come una cerniera che unisce in un mondo immobile: perché «Le reliquie impediscono all’uomo di morire». In quelle società, sacro indica etimologicamente ciò che è separato e circoscritto; ma, di fatto, riunendo ciò che è disgiunto, diventa espressione o tramite di comunione. Segnando un’appartenenza e promettendo una sopravvivenza, il sacro istituisce culture che trasmettono racconti e miti e che osservano regole e riti: pratiche, di cui non sempre si è coscienti, orientate e protette, esigenti e accattivanti.