Alcune settimane fa è mancato Bob Silvers, fondatore della New York Review of Books, rivista di cui stiamo cercando di mantenere in vita una ridotta edizione italiana col nome 451 che chi ci legge ovviamente conosce. Ho incontrato solo una volta, e per pochi secondi, Silvers due anni fa in occasione della presentazione del film dedicato alla sua rivista da Martin Scorsese.
Un bellissimo film documentario, realizzato per celebrare il cinquantenario della fondazione, da cui si ricava bene quanto importante sia e sia stata questa rivista per la cultura progressiva statunitense negli ultimi 50 anni. Ovviamente non ho avuto modo di apprezzare di persona le doti straordinarie di Silvers come editore e ideatore e ispiratore della New York Review of Books, ma leggendo i ricordi che sono apparsi nei giorni successivi alla sua scomparsa nel sito della rivista mi sto facendo una idea precisa del suo modo di condurre il lavoro con i suoi vari collaboratori. Un modo estremamente libero da ogni condizionamento di alcun genere che non fosse la sua profonda onestà intellettuale.
Un modo che lo poneva a confronto spesso con collaboratori vincitori di premi Nobel nelle più disparate discipline scientifiche e umanistiche. E comunque con docenti di altissimo livello delle più prestigiose università americane. E’ un modo che a mio parere non ha eguali forse nel mondo, ma certamente non li ha in Italia. Ricordo che, quando scoprii la versione italiana della rivista che appariva col titolo ‘La Rivista dei Libri’ sugli scaffali di una libreria Feltrinelli, ne rimasi folgorato al punto da rimanere più di un’ ora a leggerla in piedi nella stessa libreria. Mi abbonai e rimasi in attesa del suo arrivo ogni mese. In genere finivo di leggere tutti gli articoli che vi apparivano entro le prime tre settimane e ne lasciavo sempre per ultimi alcuni che a prima vista mi parevano di scarso interesse e quindi, se quel mese non avessi avuto il tempo di leggerli tutti, sarei stato sicuro di aver letto almeno quelli che più mi interessavano. Li leggevo il sabato e la domenica mattina e la terza settimana rimanevo in attesa appunto guardando la buchetta delle lettere con speranza di un imprevisto arrivo anticipato. Ricordo che una volta mi era rimasto da leggere solo un articolo sui ragni a cui nella scorsa dell’indice avevo dedicato un: “No, questo mi dispiace ma non lo leggo!”. Andai alla buchetta. Niente. Il sabato mattina con la New York Review in mano era però di una tale soddisfazione che volli riprenderla in mano per vedere se mi fosse sfuggito qualcosa. L’articolo sui ragni. No questo no. Mi scappò l’occhio sulle prime righe. Non riuscii a staccarli per almeno tutta l’ora che mi servì per finirlo. Un racconto fatto con la sapienza di un romanziere americano come quelli che ho sempre amato leggere. Un incipit ineludibile. E sempre. Qualsiasi fosse la materia trattata. Anche i ragni. Leggendo i ricordi che gli scrittori della New York Review hanno dedicato alla figura di Bob Silvers dopo la sua scomparsa ho capito quale fosse la forza e la ragione di quella inevitabilità, di quella costruzione perfetta che stava alla base di ogni articolo, di ogni materia, di ogni apparente insignificanza. Era il lavoro perfetto e speciale che Silvers faceva e di cui mi farebbe piacere far partecipe i nostri lettori traducendo alcuni di questi ricordi.
Roberto Quagliano
Gli occhi per cui noi scrivevamo si sono chiusi. Ma molto resta del loro sguardo: l’intelligenza, il rigore dell’analisi, la preoccupazione per ciò che conta veramente – in sostanza l’ideale editoriale che Bob incarnava.
Bob ha espresso un’ intera visione del mondo attraverso il suo lavoro di editore, in un panorama che comprendeva arte, politica, narrativa, economia, musica, scienza, filosofia, attualità, materie spesso raccolte in un unico numero della Review. Noi abbiamo scritto per lui per aggiungere qualcosa a quella visione del mondo, per partecipare ad essa, e – era il genio particolare di Bob – per metterci al suo servizio a modo nostro. I suoi interessi spaziavano ovunque. Egli mi chiedeva spesso di mia figlia che soffre di una sindrome maniaco-depressiva. Aveva sperimentato la malattia da vicino con Robert Lowell, e aveva capito la devastazione che lasciava dietro di sé un accesso maniacale. Questi interessi erano essenziali per l’editore, perchè l’editore coincideva con l’uomo: non ho mai conosciuto una persona la cui vita e il lavoro fossero stati così completamente intrecciati. Sentivo il suo sostegno più profondamente – con le e-mail, le telefonate, i memo, lo sforzo condiviso per migliorare il testo – quando scrivevo su argomenti poco simpatici: il travaglio dei mussulmani di New York dopo l’ 11 settembre, per esempio, o la dura strada dello sfollamento urbano. Egli era personalmente, e molto discretamente, coinvolto nella lotta per mantenere le librerie di quartiere aperte nei distretti più poveri della città di New York. E ciò che gli piacque di più del movimento Occupy Wall Street fu che quelle persone avevano messo in piedi una libreria per dare libri a prestito in Zuccotti Park. Ho mandato un pezzo a Bob sulla crisi degli alloggi a New York solo poche ore prima che morisse. Sapevo che era troppo malato per poterlo leggere ma sentivo comunque lo sguardo dei suoi occhi su di me.
Michael Greenberg
Una volta sentii dire di Bob Silvers che la sua missione era quella di far scrivere i giornalisti come degli accademici e gli accademici come dei giornalisti. C’è qualcosa di più che interessante in questa sua caratteristica.
Per un giornalista come me l’impegno richiesto da Bob era come una chiamata per alzare la posta in gioco, e cioè per raggiungere un livello di rigore e di precisione più alto di quello che generalmente consente il normale giornalismo. Naturalmente questo standard non ha mai avuto necessità di essere codificato.
Piacere a Bob era l’obiettivo, e semplicemente leggendo la Review si capiva che anche gli scrittori più famosi dedicavano tutte le loro forze per raggiungere quell’obiettivo. E tuttavia, nonostante tutte le pressanti richieste che faceva, Bob non è mai stato una persona in qualche modo limitante. Anzi, esattamente l’opposto. Durante una mia telefonata per esempio dalla convention repubblicana per dargli gli aggiornamenti sullo svolgimento dei lavori, egli poteva essere spiritoso, anche con un tono cospiratorio, e avrebbe riso un sacco. Egli sembrava meravigliarsi ancora per ogni nuova assurdità che il mondo gli offriva. Era protettivo nei confronti dei suoi scrittori, e li spingeva a usare la pagina delle lettere per rispondere a ogni critica che avessero trovato sulla loro strada, trasformando quello che altrimenti sarebbe stato un semplice rimprovero nell’occasione per uno scambio di opinioni. Ed era evidente che per alcuni dei suoi scrittori egli sentiva un rispetto che era molto simile a un sentimento d’amore. Credo che Toni Judt rientrasse in quella categoria. Quando scrissi l’articolo per una raccolta postuma, e superba, di saggi di Judt, il titolo che Bob scelse per il pezzo fu: ‘Il Migliore tra Noi’. Dopo che Bob mi aveva inviato una bozza corretta, dovevo strizzare gli occhi per poter leggere le note a mano scritte da lui a margine, protette oltretutto dal formato PDF. Queste note spesso riguardavano un dettaglio così oscuro dell’articolo che solo un esperto avrebbe potuto rilevarlo. E ciò nonostante mentre tu facevi, per esempio, la correzione di una data nella carriera di Ariel Sharon, sapevi che Bob stava facendo contemporaneamente la stessa cosa per un pezzo su Matisse o sulle navi container. La sua conoscenza, e la sua curiosità, sembrava così vasta e senza fine come l’oceano. Essere come lui è stato, anche nei suoi tardi anni ottanta, voleva dire essere dotato di qualcosa di più che non un semplice intelletto vorace. Era più una particolare disposizione e disponibilità nei confronti della vita stessa. Da quel punto di vista, come da molti altri, Bob è stato un modello – il migliore tra noi.
Jonathan Freedland
Sono sempre stata in imbarazzo a chiamare l’ufficio (della New York Review) per segnalare qualche correzione o aggiunta da fare a un mio articolo. Spesso erano tante e mi sembravano veramente non così di rilievo da far perdere tempo a un uomo così importante. Avrei voluto che fossero stati i suoi assistenti a farsi carico delle correzioni – consistenti spesso nel cambiare una sola parola – ma evidentemente dovevano aver ricevuto da lui rigide istruzioni di passargli sempre le telefonate degli scrittori e dei giornalisti. “Ciao!” avrebbe tuonato al telefono, felice come un cucciolo di Labrador che gioca con un ramoscello, e lo avrei sentito saltare intorno alla parola in questione, tirando su col naso preoccupato, sgomitando e rifilando pacche, fino a quando non fosse soddisfatto di aver trovato la parola giusta da sostituire. Per la sua mente infinitamente aperta, niente era così soddisfacente come il trovare una parola o un segno di punteggiatura che rendesse più chiara una frase, o come una discussione nel cuore della notte, poche ore prima della stampa, intorno all’idea centrale di un paragrafo. In particolar modo quando era l’autore a prevalere ed egli sentiva come se fosse nata una qualche nuova prospettiva su un particolare argomento. Silvers non era un uomo tenero e affettuoso, raramente mostrava i suoi sentimenti, ma sempre, sempre, nei suoi rapporti con l’amore di un’intera vita, Grace Dudley, con i suoi scrittori, con i loro manoscritti, ciò che spingeva il suo agire era la sua quasi sovrumana capacità di dedicarsi a ciò cui teneva.
Alma Guillermoprieto
Quando ero in prigione, Bob ha pubblicato alcuni dei miei saggi in The New York Review of Books. Fu un gesto di solidarietà che non dimenticherò mai. Ma fu anche un consistente modo di proteggermi – un prigioniero che veniva pubblicato sul più importante forum intellettuale del mondo sarebbe stato protetto contro i capricci delle guardie carcerarie e degli aparatnhiks di partito. Incontrai Bob dopo il 1989, quando visitò la Polonia, e immediatamente offrì il suo sostegno morale e finanziario alla Gazeta Wyborcza. Mi sono poi incontrato con lui molte volte nel corso degli anni, e, per me, lui ha sempre rappresentato il meglio delle tradizioni democratiche e intellettuali americane. Pubblicando la New York Review of Books, ha fatto fare passi avanti ai più importanti dibattiti contemporanei. Ha occupato un posto unico nella vita intellettuale del nostro tempo, un posto che probabilmente nessun altro potrà occupare.
Adam Michnik
Ho avuto la straordinaria fortuna di scrivere per i due più grandi editori di questa epoca, William Shawn del New Yorker e naturalmente Bob Silvers. Pensavo che i metodi del The New Yorker fossero gravosi, e in effetti lo erano, ma quelli della New York Review erano oltre la mia immaginazione.
Alcuni collaboratori della Review hanno scritto di avere ricevuto spesso da Bob una prima bozza corretta A, poi una bozza B, e poi una bozza C del loro articolo prima di poter andare in stampa. Mi chiedo come abbiano fatto ad essere stati così fortunati. Era in realtà normale nei miei primi anni alla Review ricevere fino a una bozza F per poi dover ricominciare con la bozza AA, BB, CC, DD eccetera.
Questa procedura mi sembrava un po’ folle. Dopo che il mio primo articolo per la Review andò in stampa, incontrai Bob a un book party a New York. Sfacciatamente – e non riesco a capire dove abbia trovato il fegato – gli feci notare la mia preoccupazione per un tale regime così esigente. Bob mi guardò, lui era molto alto, sorrise e disse: “Vedi, è perché vogliamo che i nostri pezzi siano perfetti.”
Bob aveva un’ eleganza vecchio stile, sempre più rara in questa età approssimativa. E se uno riusciva a conoscerlo sufficientemente bene, sapeva che la sua compagna di sempre, Grace, contessa di Dudley, era parte fondamentale ed essenziale della sua vita. Grace era generosa di spirito con gli scrittori di Bob. Negli anni recenti Grace era molto malata a Losanna e non poteva tornare a New York, e così prima di tutto cosa faceva Bob? Faceva il pendolare bisettimanale con la Svizzera per poterle stare vicino (ma ovviamente lavorava alla Review e addirittura chiamava gli scrittori anche da lì). Quando gli dissi che questo viaggio transatlantico era eroico e sovrumano, mi rispose: “E’ il minimo che possa fare.”
Come sa la maggior parte delle persone che ha avuto a che fare con lui, Bob si poteva scatenare con furia nel corso di una discussione o nel reagire all’ arrivo in ritardo, rispetto a ciò che lui aveva stabilito, di un articolo . Ma non era mai una questione personale e la cosa non aveva mai seguito.
Una volta che il suo punto di vista aveva vinto – come accadeva di solito – passava oltre. Se era convinto ti dava spazio: nell’ultimo pezzo per lui scrissi, del discorso inaugurale di Trump, che era cugino di quello che aveva tenuto durante la convention – volendo significare ovviamente che aveva lo stesso tono negativo.
In una bozza Bob scrisse a margine nella sua scrittura contorta: “Non siamo stati informati del fatto che i discorsi possano avere cugini.” Una volta spiegatogli ciò che volevo dire, la mia formulazione fu salva.
A fronte di tutta la feroce serietà con cui Bob aveva a cuore lo stato del mondo e della nostra nazione, c’era anche molta allegria in lui. Penso che egli sentisse che se non avessimo trovato qualcosa di umoristico in ciò che accadeva noi saremmo impazziti. Bob rideva molto e con facilità. Sapeva vedere l’umorismo e l’assurdità delle varie situazioni – e devo dire che come corrispondente da Washington ho avuto spesso occasione di parlargli di situazioni assurde. Egli rendeva divertente anche parlare degli scandali più recenti. E soprattutto capiva il giornalismo. Una volta la fonte per un mio pezzo, un ben noto personaggio di Washington, gli scrisse una lettera piena di improperi lamentando i miei misfatti. Che avevo sbagliato tutto, che non avevo contestualizzato le cose dette e così via. Non avevo mai visto una lettera così arrabbiata da parte di una mia fonte ed ero preoccupata di come Bob l’avrebbe presa. Passato un po’ di tempo mi chiamò e con noncuranza mi disse: ‘Ho visto che hai citato (il nome del personaggio di Washington) fedelmente’. Bob non ha mai fatto un cambiamento di testo su cui l’autore non fosse d’accordo. A volte questo processo per trovare l’accordo durava però molto tempo.
Quando stavamo chiudendo quell’ultimo articolo riguardante le prime settimane dell’amministrazione Trump –un pezzo che aveva richiesto molti aggiornamenti fino all’andata in stampa – io ero enormemente sollevata quando finalmente lo affidai alle stampe, o almeno così mi sentii. Ventiquattr’ore dopo, quando mi ero già rivolta ad altre questioni, Bob mi chiamò con una domanda, relativa a una questione minore che probabilmente nessuno avrebbe mai notato. E di conseguenza correggemmo il testo, ovviamente.
Elizabeth Drew