«Dio, sarebbe bello essere un finto qualcuno piuttosto che essere un finto nessuno».
Mike Tyson
Il periodo successivo alla fine della carriera di un campione di boxe ricorda la frase di Karl Marx sulla storia che si ripete prima come tragedia, poi come farsa. Anche quando il pugile riesce a ritirarsi prima di essere stato seriamente ferito, non è improbabile che i ripetuti colpi alla testa avranno effetti neurologici a lungo termine, e il ripetuto logorio dei duri allenamenti e dei combattimenti vinti a fatica accelereranno il deterioramento naturale dovuto all’età; è certamente probabile che il pugile sia stato testimone o abbia provocato, molti brutti incidenti nella vita di altri pugili. Come il campione peso welter Fritzie Zivic disse una volta: «Stai boxando, non stai suonando il piano».
Il pugile ha attraversato un inferno di esperienze viscerali, violente di cui la maggior parte di noi, osservando dalla distanza, può avere solo il più vago barlume di comprensione; ha rischiato la sua vita, ha ferito altre persone, come un gladiatore al servizio dell’intrattenimento della folla; alla fine dei conti, spesso si è visto che, dopo aver guadagnato milioni di dollari per sé stesso e per altri, il pugile è quasi al verde, se non in debito con l’agenzia delle entrate, e deve dichiarare bancarotta (Joe Louis, Ray Robinson, Leon Spinks, Tommy Hearns, Evander Holyfield, Mike Tyson1, tra gli altri).
Ironico allora, forse inevitabile, che il dopo carriera di un campione del pugilato replichi così spesso questo ruolo tragico in forma di farsa: ricordate che Joe Louis, uno dei più grandi pesi massimi della storia, ha finito la sua carriera con due ignominiose sconfitte per mano di pugili più giovani e con un breve interludio come wrestler professionista, impersonando poi sé stesso come “greeter”2 in un casinò di Las Vegas. Probabilmente il più grande campione dei pesi massimi, ineguagliato nel suo primato per la spettacolarità delle performance sul ring, anche Muhammad Ali finì la sua carriera dopo una serie di umilianti e distruttive sconfitte, sfruttato dal suo manager Don King e pesantemente indebitato; nel suo stato visibilmente provato, afflitto dal morbo di Parkinson e incapace di parlare, Ali viene molto spesso mostrato in occasioni pubbliche, spesso in abiti formali, con la faccia impassibile come una maschera.
Mike Tyson, a vent’anni il più giovane campione dei pesi massimi della storia, e nei primi, vertiginosi anni della sua carriera un meritevole successore di Ali, Louis e Jack Johnson, è riuscito a risollevarsi dopo essersi ritirato dalla boxe nel 2005 (quando abbandonò inaspettatamente prima del settimo round di un incontro con il mediocre pugile Kevin McBride). Divenne una bizzarra replica dell’Iron Mike originale, quello che era stato protagonista di un videogame, di cartoni animati e di fumetti; una caricatura di sé stesso pieno di cocaina nei crudi film della serie Una notte da leoni; stella di un one-man-show di Broadway diretto da Spike Lee intitolato Undisputed Truth (Verità indiscussa) e dell’adattamento di un film della HBO di quello spettacolo; e ora autore, con la collaborazione di Larry Sloman, della biografia True. La mia storia.
Nella sua tarda adolescenza negli anni ’80 Mike Tyson fu un fervente ammiratore dei pugili vecchio stile, caratterialmente più simile ai pugili degli anni ’50 che ai suoi contemporanei più furbi. A quarant’anni, Tyson guarda a sé stesso con l’assurdo umorismo di un Tersite per cui il disgusto di sé e del suo pubblico è divenuto un numero di intrattenimento abituale. Gli piace apparire alla conferenze stampa in un’auto parodia folle, minacciosa e urlante:
Sono uno stupratore condannato! Sono un animale! Sono la persona più stupida della boxe! Devo andarmene da qui o ucciderò qualcuno!…Sono fatto di Zoloft3, giusto? Ma è quello che mi impedisce di uccidervi tutti…Non voglio prendere lo Zoloft, ma loro sono preoccupati del fatto che sono una persona violenta, quasi un animale. E loro vogliono solo che io sia un animale sul ring.