Delphine Coulin

Una ragazza nella giungla di Calais

ROMANZO. I volontari delle associazioni le avevano detto che in Europa negli ultimi due anni erano scomparsi oltre diecimila bambini migranti. Migliaia di minorenni come lei, svaniti nel nulla. Nessuno sapeva dove fossero. Nessuno sarebbe venuto a cercarli.
Copyright dell’edizione italiana:
2019 © Gremese International s.r.l.s. – Roma

Primo capitolo del romanzo

Delphine Coulin

Era stata la prima a svegliarsi, affamata. Gli altri dormivano ancora nella tenda blu, rannicchiati uno contro l’altro per tenersi caldo, una figliata di cuccioli senza madre. Avvolta in una coperta che le dava un’aria da spaventapasseri e lasciava passare il vento arrivato dall’Inghilterra, la ragazza guardava la città spenta e le sue poche luci permanenti.
Aspettava, erano mesi che aspettava con impazienza, mesi che vegliava. Era uscita sullo stradone deserto, stando però attenta a non farsi vedere. Da quando si era tagliata i capelli con il coltello, aveva l’aspetto di un ragazzo. Le gocciolava il naso, se l’è asciugato con la giacca, incurante della scia che ci ha lasciato sopra. L’aria aveva un odore di fiato salato, il mare faceva sentire la sua presenza fino a qui. Dall’altra parte, in lontananza, al lato opposto dei container, ha visto la fila di roulotte pronte per essere demolite. Si sentivano ancora delle grida, talvolta richieste d’aiuto, rumori di motore, ma più spesso a regnare era il silenzio della notte giunta al termine.

Un piccione sudicio saltellava come se stesse giocando a campana. Quando si è avvicinata, si è resa conto che gli mancava una zampa. Al suo posto, un moncherino rosa vivo che gli avrebbe impedito per sempre di volare. Lo ha preso tra le dita intirizzite per il freddo: bagnato di pioggia, quello cercava di dibattersi, allora lei lo ha stretto ancora più forte, non potendo fuggire l’animale ha finito per arrendersi, mentre lei gli alitava sulle piume appiccicose. Il piccione ci prendeva gusto: ha socchiuso gli occhi. La notte era chiara, umida e fredda. La ragazza aveva un volto puro, delicato. Le labbra piene di gioventù, appena rovinate dalle screpolature, riscaldavano il piccione spennato, talmente sporco che solo la zampa amputata pareva essere scampata al fango. Lo ha accarezzato con la punta delle dita. Sembrava un topo con le ali.

Ogni tremulo bagliore in lontananza era una possibile festa, una casa dove altri bambini dormivano, un ristorante dove si preparava da mangiare per la giornata. Lei immaginava l’energia di quella città che non sarebbe mai stata la sua benché ci vivesse da nove mesi. I pochi abitanti con cui aveva avuto l’occasione di parlare l’avevano guardata tutti con una specie di diffidenza. Quando non c’erano retimetalliche, c’erano delle barriere, visibili o meno, tra lei e la gente, mentre qui, nella giungla, aveva i suoi punti di riferimento. Anche se le strade erano vuote da qualche ora.

Sarebbe stato più facile ubbidire agli ordini e andare via. Ora sarebbe stata seduta sul sedile rosso di un pullman riscaldato diretto a un centro d’accoglienza, o forse sarebbe già stata in una stanza preparata per lei, senza nient’altro da fare se non aspettare che qualcuno decidesse al posto suo il luogo dove finire di crescere. Forse, avrebbe dovuto abbandonare gli altri e lasciare Elira a sbrigarsela da sola, ma preferiva essere lei a decidere cosa fare e cosa non fare. E che ne sarebbe stato di Elira senza di lei? Non avevano creduto all’ambigua proposta di abbandonare la giungla in attesa che qualcuno scegliesse per loro. Lei ormai si fidava solo della sua banda. Si è tirata su il colletto del vecchio parka e si è avvoltolata la sciarpa intorno al collo per non lasciare esposto al freddo nemmeno un centimetro di pelle.

Il giorno prima, i pullman avevano portato via gli ultimi accampati, tutti quelli che avevano accettato i bracciali verdi e rosa. Loro, invece, avevano preferito nascondersi in una delle tende rimaste in piedi, che odorava di plastica bruciata e si sollevava con le raffiche di vento. Erano tornati la sera, perché questa qui era casa loro, ma ora che non c’era anima viva non sapevano più se avevano fatto la scelta giusta. Ormai era impossibile tornare indietro. Ritornare dal Kurdo? Meglio crepare. Lei aveva scelto di continuare e di andare avanti, ma con i suoi mezzi. ‘Fanculo la polizia. ‘Fanculo il Kurdo. ‘Fanculo i pullman. Preferiva vivere mangiando tra la spazzatura. Chiedere l’elemosina. Il giorno prima aveva trovato delle arance ancora buone in una baracca svuotata. Potevano cavarsela, aiutandosi l’uno con l’altro, ma sarebbero anche potuti morire qui, senza che nessuno lo venisse a sapere.
I volontari delle associazioni le avevano detto che in Europa negli ultimi due anni erano scomparsi oltre diecimila bambini migranti. Migliaia di minorenni come lei, svaniti nel nulla. Nessuno sapeva dove fossero. Nessuno sarebbe venuto a cercarli. Le loro famiglie avrebbero pensato per sempre che erano degli ingrati, che avevano dimenticato da dove venivano. A volte, i loro corpi venivano ritrovati sull’autostrada, spinti nella cunetta ai margini della carreggiata, e se si conosceva il nome allora avevano una targa in legno sulla tomba, altrimenti la tomba rimaneva muta. A volte, non si sapeva nemmeno che fine avessero fatto, scomparsi senza lasciare traccia. Ora che erano soli nella giungla, anche lei poteva essere depennata dalla lista senza che nessuno se ne accorgesse. Gli unici a compiangerla sarebbero stati quelli della sua banda.
Hawa ha spinto delicatamente il piccione, lui è tornato verso di lei, lei lo ha spinto di nuovo e sembrava che quello avesse voglia di giocare, a meno che non volesse solo essere protetto, o che lei continuasse ad asciugarlo. Lo ha spinto ancora una volta, più forte, e il piccione è ruzzolato via, il becco nel fango. Si osservavano entrambi con gli occhi sgranati e neri.

Non aveva più niente, ma aveva fiducia nel gruppo. Si erano giurati che sarebbero rimasti insieme qualunque cosa accadesse. Bisognava solo trovare una soluzione per andarsene da lì.

È ritornata nella tenda che sapeva di stalla, di latrina. Gli altri cominciavano a muoversi, ancora immersi nel cumulo di coperte umide, avevano i capelli incolti e troppo lunghi, e i vestiti erano sporchi, la mattina puzzavano ancora più della sera prima. Elira si stiracchiava, una mano le ha allungato una sigaretta, lei l’ha subito accesa, appena sveglia. Il fumo che le usciva dalla bocca pareva la nebbia che aleggiava nel cielo, segnali indiani di fumo mandati al mondo di fuori. Elira ha lasciato la sigaretta ad Hawa e si è accesa una cicca che conservava in tasca. La cicatrice sotto l’occhio le dava un’aria furbesca nonostante le pupille spente. Sulle unghie della mano sinistra c’erano resti di smalto rosso, su quelle della mano destra niente. Ha ripiegato le lunghe gambe sotto di sé, d’istinto, per nasconderle.
I ragazzi si sono svegliati, già chiassosi appena alzati. Si spintonavano, dolcemente, rudemente, subdolamente. Si sputavano addosso, s’insultavano, si tiravano calci prima di afferrarsi per il collo per poi spintonarsi di nuovo. Un linguaggio.

Milad era l’unico che rimaneva seduto nel suo sacco a pelo. Ha teso la mano per toccare suo fratello che dormiva ancora, poi ha guardato Hawa con insistenza, con una luce selvaggia e incendiaria negli occhi. Lei ha fatto finta di non sentirsi il suo sguardo addosso, ha solo sorriso vagamente mentre metteva una felpa in più, prima di girare la testa verso di lui. Si sono guardati. Qui, lei aveva imparato a non abbassare lo sguardo. È lui che lo ha distolto per primo.

Ali stava già mangiando. Era uno scoiattolo, aveva sempre del cibo in tasca, caramelle sciolte, un po’ di mandorle, carne secca, mele vecchie. Ora, stava mordicchiando una specie di pasta rossa. Si sarebbe detto il moncone del piccione, ma forse era un pezzo di pomodoro con del pane che aveva conservato dal giorno prima o un dolcetto che era riuscito a rimediare in giro, o magari una zampa di gallina, non si riusciva mai a capire come facesse a trovare tutte queste cose. Si è spazzolato via le briciole dalla pancia grassoccia. Tra le dita paffute si vedeva la zampa cruda di gallina. Lo stomaco di Hawa ha cominciato a brontolare. Si è passata una mano sulla pancia, diventata un animale da ammansire. Ali l’ha guardata, e le ha allungato qualcosa, della pasta di mandorle, o un lokum, rosso anche lui. Hawa lo ha afferrato e inghiottito. La saliva le ha fatto male, mentre ricopriva il piccolo pezzo di zucchero.
Milad si è infilato la giacca di pelle che gli dava un’aria da cattivo ragazzo, ha preso il suo bastone, ha allontanato il ciuffo di capelli dagli occhi con uno scatto della testa e ha detto con la sua voce calda, dolce per le orecchie di Hawa, che la giungla apparteneva a loro, adesso.
Solo a loro.

Sono usciti dalla tana, agili come gatti lungo le tende di plastica e legno rabberciato che resistevano nel campo. Il fondo dei pantaloni si è bagnato di nuovo in quel fango che sporcava tutto, scarpe, mani, vestiti, e si incrostava ovunque, non se ne sbarazzavano mai del tutto. Un fango pesante, appiccicoso, che inghiottiva i passi. Lei ha percepito latrati e rombo di motori. Il sole d’inverno era sorto, lo stradone gelato brillava sotto una luce livida. Le onde in lontananza spazzavano la riva con impeto sempre maggiore.

Erano in sei: due grandi, due piccoli e due ragazze. Una banda di sbrindellati che marciava quasi a ritmo. Il fratello di Milad, Jawad, arrancava per rimanere al passo degli altri, abituato a saltare con gli stivali sui bancali di legno che impedivano di affondare nel fango, e ha finito per afferrare la mano del fratello.
Aveva sempre meno ricordi della loro famiglia.
Milad diceva che era meglio così.
Ali, invece, era sempre ultimo perché più lento. Appena fatti tre passi, aveva già l’affanno. La pancia lo faceva sembrare una divinità in miniatura, e dava l’idea di ostacolarlo nella marcia come uno zaino portato sul davanti. Un telone ha sbattuto dietro di loro ed è volato via col vento. Ali ha sobbalzato cacciando un urlo, seguito da una risata generale.
Ibrahim seguiva Milad, di continuo. Era ancora più grande di Milad, e più robusto, la pelle del viso tutta butterata per via di vecchie cicatrici lasciate dall’acne, sembrava una guardia del corpo, con in più il senso dell’umorismo. Ibrahim parlava poco, sorrideva poco, ma faceva ridere gli altri non appena apriva bocca, anche quando non era sua intenzione essere divertente, tutti si mettevano a ridere.

Il paesaggio assomigliava meno che mai a una giungla, o comunque era una giungla fredda, di legno e fango, con animali inzaccherati, e mostri di metallo in lontananza, il tutto sotto una pioggia sottile. Non proprio il posto dei sogni, con pappagalli e foglie verdi e grasse, dove si suda in mezzo all’odore di humus. Piuttosto, una giungla dei poveri.
Qui non c’era un solo albero, una sola foglia, né tantomeno il caldo. Niente aveva colore. Era tutto grigio. C’era puzza di fumo e di spazzatura. E quel giorno, c’era il silenzio. Questa giungla, che era stata un caos nel quale migliaia di persone vivevano, mangiavano, parlavano, lottavano, era diventata un deserto, dove loro erano soli, tutti e sei.

Dovevano per forza esserci ancora poliziotti in giro, a controllare che tutti fossero realmente andati via. Se li avessero trovati, quelli tra loro ritenuti maggiorenni sarebbero stati portati direttamente al centro di trattenimento, un posto dove rinchiudevano le persone, sostenendo tuttavia che fossero libere, visto che non avevano fatto niente di male. All’inizio lei aveva dubitato che le cose stessero davvero così, ora invece credeva a ciò che le era stato raccontato. Si diceva che c’erano delle reti tutt’intorno, e degli scivoli per i bambini.
Milad l’ha raggiunta. Si appoggiava sempre al suo bastone, per aiutarsi a camminare nel fango, e stranamente questo gli dava un’eleganza che gli altri non possedevano. Nella melma, i loro stivali producevano un rumore di risucchio, le pozzanghere avrebbero potuto inghiottire i piedi. I due procedevano in testa al gruppo, fianco a fianco. Lei si è aggiustata il seno smunto. Aveva perso parecchi chili negli ultimi mesi, le braccia e le gambe erano diventate degli stecchi. Aveva fame, sempre. Era disidratata, con la pelle secca, ruvida. Sentiva prurito tra le dita delle mani e dei piedi. Era grazie a Milad che stavano lì, soli in mezzo alle macerie. Lui le ha detto che ormai nessun adulto avrebbe più detto loro quello che dovevano fare. Lei ha annuito con la testa guardando dritto davanti a sé. Niente avrebbe potuto farla dubitare in quel momento.

Il piccione li ha sentiti arrivare e, su una zampa, ha cercato di trovare riparo in un anfratto. Ibrahim ha lanciato il piede in avanti all’improvviso sferrando un gran calcio al piccione, che è volato via lontano, come un pallone da calcio, Elira ha riso nervosamente, prima di prendere lo slancio per colpire anche lei forte la testa del piccione, il quale ha tratto uno strano gemito, poi è stato Ali ad accanircisi, selvaggiamente, e la bestiola non ha emesso più alcun verso, sembrava uno straccio grigio e rosso con le piume piene di fango e un becco penzoloni. Milad ha gridato che però non bisognava rovinarlo, magari avrebbero potuto mangiarlo. Il suo fratellino ha raccolto l’uccello ridotto in poltiglia che odorava di sangue, e lo ha messo nello zaino. Hawa ha guardato Milad, lui le ha detto che, ad ogni modo, un uccello che non poteva nemmeno volare non serviva a niente. Non era nemmeno più un uccello.

HAWA
Quando ripensava all’Etiopia, Hawa si rivedeva spensierata e allegra, sicura di sé e intelligente, una ragazzina piena di fiducia e di vitalità che viveva un eterno presente in cui i suoi genitori sarebbero stati sempre buoni con lei. A volte, i compagni di scuola si lamentavano di essere stati picchiati o sgridati, alle ragazze non era sempre permesso di fare i compiti e a volte nemmeno di sedere ai banchi di scuola poiché dovevano aiutare la mamma o la zia, o talvolta persino i vicini di casa, un dovere ritenuto comunque più importante che imparare poesie inglesi o tabelline aritmetiche. Ma Hawa era la preferita di suo padre, il quale era talmente orgoglioso di avere una figlia intelligente e coraggiosa come un maschio era l’ultima dei suoi undici figli che la lasciava andare a scuola tutti i giorni, le permetteva di vedere le sue amiche e di giocare il sabato all’uscita del villaggio, insomma le lasciava fare quello che voleva mentre lui se ne stava nel retrobottega del negozio che aveva mandato avanti per una vita e che ormai era gestito dalla sua ultima moglie, la madre di Hawa. Solo che un giorno suo padre era caduto e non aveva mai più camminato. Sua madre aveva speso tanti soldi per farlo curare all’ospedale ma non era servito a niente. Il padre era rimasto là. Hawa aveva come l’impressione che fosse stato tutto deciso in fretta e furia, sua madre aveva combinato un appuntamento con un uomo e Hawa si ricordava che quando aveva visto quest’uomo, che aveva quasi l’età di suo padre, si era chiesta se sua madre non avesse già deciso di risposarsi e le dispiaceva per suo padre, ma molto presto aveva capito dallo sguardo che l’uomo era venuto a prendere lei, lei e le sue braccia esili carezzate da quello sguardo, lei e le sue caviglie talmente sottili che l’uomo avrebbe potuto stringerle ad anello tra il pollice e l’indice, lei e le sue giovani labbra che l’uomo guardava come se potesse già baciarle. Sua madre l’aveva promessa a un uomo della stessa età di suo padre, senza nemmeno fingere di chiederle cosa ne pensasse. Quando lei, una volta che l’uomo dallo sguardo carezzevole se ne era andato, ha osato dire che non era d’accordo, sua madre s’è messa a strillare “che problema hai? Perché non sei come le altre ragazzine? Tu, e le tue idee moderne”, allora Hawa ha urlato più forte “quell’uomo è troppo vecchio per me”, e sua madre le ha detto che era veramente stupida a non capire che un uomo doveva lavorare parecchi anni per mettere insieme il denaro necessario a comprarla, “non te lo insegnano questo a scuola?”, allora Hawa è diventata tutta rossa, lei non era una bestia che si poteva comprare, ma sua madre ha tagliato corto dicendole di stare zitta.
Le era bastata una notte per riflettere. Sua madre aveva ragione solo su un punto: lei non era come le altre, e avrebbe fatto ciò che nessun’altra ragazzina di sua conoscenza avrebbe fatto. Era inconcepibile dover già seppellire la sua vita appena cominciata. Lei voleva crescere libera. Forse era questa la sua maledizione. Alcuni ragazzi della stessa scuola erano partiti qualche mese prima per l’Inghilterra ed erano già arrivati. Tutti sapevano che era la donna dell’internet point che li aveva aiutati a partire. Hawa era pronta a battersi. Suo padre stava per morire, i suoi fratelli e le sue sorelle erano più grandi di lei e magari il preside sarebbe venuto a parlare con sua madre per convincerla a cambiare opinione, ma non sarebbe servito a niente.

L’indomani, per la prima volta in vita sua, Hawa non è andata a scuola. La signora dell’internet point le ha dato i prezzi. Lei non ha detto niente a nessuno. È rientrata a casa alla solita ora, senza rivolgere la parola alla madre, convinta da parte sua che la figlia le stesse ancora tenendo il muso dopo il litigio

del giorno prima ma che le sarebbe passato presto. Ha rubato i gioielli che la madre aveva ricevuto per il matrimonio, lasciandole solamente l’anello verde a cui teneva tanto. Ha infilato qualche vestito nello zaino di scuola, e ha aspettato che venisse sera, come le era stato chiesto dalla signora dell’internet point. Aveva tredici anni e nessuno avrebbe potuto rimproverarla di non avere immaginato quanto doveva accadere da quel momento in poi. La signora dell’internet point l’aveva portata in città, proprio dove suo padre stava marcendo nello stanzone affollato dell’ospedale, fino a un taxi collettivo circondato da gente seduta sulle valigie e su pacchi a riquadri bianchi e rossi. L’avevano piazzata dietro, tra due donne dal seno prosperoso e le gambe aperte, e si era lasciata trasportare sulla strada dissestata. La macchina era una 403 con la scocca rattoppata in tutti i colori. Passando davanti all’ospedale, lei aveva mormorato il nome di suo padre chiedendogli che le mandasse un segnale per dirle che l’aveva sentita, ma non era successo niente, e Hawa si era data della stupida, a credere ancora alla magia come la bambina che dalla notte prima non era più.

Era arrivata in Sudan molto presto. Era la parte più facile del viaggio, benché al momento credesse che era quella più difficile. All’arrivo c’era un uomo ad aspettarla. L’aveva comprata dalla signora dell’internet point. Lei non ha mai saputo per quanti soldi.

Hawa era diventata la domestica della nuova famiglia. Puliva, faceva la lavatrice, stirava, cuciva e cucinava. Talvolta si occupava anche del neonato. Non aveva mai lavorato così tanto. Tutto ciò che le aveva insegnato sua madre volendo fare di lei una sposa perfetta le ritornava utile, e lei la ringraziava in silenzio per questo. Sapeva preparare salse squisite e ottimi ragù, lavava i panni bianchi fino a farli splendere al sole, andava a caccia della polvere come se fosse stata il suo più acerrimo nemico. Ma era stata educata per essere una brava madre di famiglia, non una serva. A volte, si chiedeva cosa ci faceva lì, e se non sarebbe stato meglio sposare l’uomo dalle mani possenti che era andato a trovare sua madre. In Sudan, il padrone le faceva quello che le avrebbe fatto il vecchio marito se fosse restata. Ma non stava a pensarci troppo, quando non lavorava dormiva.
Anche l’altra giovane domestica della casa, un’eritrea fuggita dal suo paese, voleva andare in Inghilterra. Sognavano insieme. Hawa era rimasta quasi un anno in quella casa. Nascondeva i soldi in un tubetto di cartone cucito nella fodera dei pantaloni, e aveva imboscato in mezzo ai vestiti due scatolette di sardine rubate in cucina. Una notte che il padrone l’aveva svegliata per scoparla, Hawa aveva poi aspettato che si addormentasse accanto a lei e quando era diventato ormai solo un respiro rauco e regolare, aveva svegliato l’altra domestica e insieme erano scappate correndo tra le luci gialle della notte.

Erano salite su un grande camion diretto verso il deserto, appollaiate su sbarre di ferro intorno a cui erano state avvolte delle coperte, con le gambe penzoloni e la testa che guardava al cielo. La massa dei passeggeri, dei loro bagagli e dei bidoni rischiava di far rovesciare a ogni momento tutto il carico o di schiacciare i passeggeri stessi. Hawa non aveva paura. Non ci poteva essere niente di più duro del Sudan. Guardava i solchi scavati dalle centinaia di camion passati prima del loro ed era felice di tracciare lì anche la sua, di strada.

Pensava che in Libia sarebbe stato diverso, e invece era andata peggio. I trafficanti l’avevano consegnata direttamente alla polizia, che l’aveva separata dalla piccola eritrea. I poliziotti avevano trovato subito il nascondiglio nella fodera dei pantaloni, e si erano presi tutti i soldi che le restavano, poi l’avevano messa in una stanza con una ventina di uomini e donne africani. C’era sangue sui muri, e aveva presto capito il perché: ci torturavano quelli per i quali chiedevano un riscatto. Ne sceglievano due o tre, li picchiavano o li sottoponevano alle scosse elettriche sui piedi o sui genitali, li appendevano per le braccia, e poi chiamavano i loro parenti in Eritrea o in Etiopia chiedendo soldi. Molti soldi, decine di migliaia di dollari, che le famiglie non potevano pagare in nessun modo. Le donne venivano maltrattate di meno, perché dovevano rimanere presentabili.

E per loro, raramente veniva chiesto un riscatto. Le vendevano, direttamente.

Erano arrivati dei nigeriani che facevano la tratta di africani tra il Sudan e la Libia o Israele, e avevano comprato sei ragazze, tra cui Hawa. Stavolta l’avevano caricata su una 4×4 e avevano viaggiato a lungo fino a un’enorme città, come lei non ne aveva mai viste. Aveva un nuovo padrone, in una grande abitazione dalla quale non poteva uscire mai, con la scusa che avrebbe potuto farsi prendere, senza documenti. Non vedeva mai la luce del sole e rimaneva chiusa in quella casa di pietra dove tutto era duro. Non sapeva nemmeno quante persone ci vivevano, non le aveva viste tutte. Sentiva solo le voci dei bambini, e qualche volta dei rumori all’esterno. Quando ripensava a questo periodo non aveva alcun ricordo di palazzi o vie, ma solo delle sue mani che lavoravano, delle urla che le ordinavano di andare più veloce, e delle botte sulla schiena.

Una notte, era di nuovo riuscita a scappare. Aveva camminato senza sosta per la città fino a quando si era imbattuta in una famiglia di etiopi che viveva per strada. Uno di essi le aveva detto che si trovavano a Tripoli, in Libia. Aveva dormito con loro sotto un ponte, poi aveva chiesto come arrivare al porto, dove si diceva ci fossero dei trafficanti che trasportavano la gente in Europa. Questa volta, era stata lei a offrire il proprio corpo per farsi traghettare sull’altra sponda. Era fiera di averlo proposto lei per prima, e del fatto che l’uomo avesse subito accettato. La cosa le aveva anche permesso di infilare un nuovo rotolino di banconote nella fodera. L’uomo le ansimava nell’orecchio andando su e giù col bacino mentre lei guardava l’oscurità densa sopra di loro, e nonostante l’odore acre di lui le desse la nausea e il suo sesso le facesse male, al solo pensiero di quanto era stata coraggiosa, di come aveva preso in mano la sua nuova vita e di come tutto ciò l’avrebbe portata lontano si sentiva riempire di forza, e quasi di gioia, per il viaggio che doveva affrontare. Fino ad allora non aveva mai deciso da sola, erano stati gli adulti a scegliere per lei, ma le cose sarebbero cambiate e tutto sarebbe andato per il meglio. Aveva pensato allo sguardo severo di suo padre, che diventava così fiero quando incontrava il suo. E si convinse che avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere per avere una bella vita, ma anche che era meglio che suo padre morisse prima di scoprire in che modo ci sarebbe riuscita. Ed era ormai una donna alta e snella quella che aveva raggiunto la banchina per la partenza. Sapeva che avrebbe fatto di tutto per difendere la sua libertà.

Non aveva mai visto il mare, e non sapeva nuotare. Era salita su un barcone con almeno altre cento persone a bordo, e dato che l’avevano messa in mezzo ai ragazzini poteva restare all’esterno, sul ponte. Era fortunata, perché di sotto la puzza di pesce e di benzina era talmente forte che qualcuno cominciava a vomitare appena partito. L’odore del vomito le arrivava fino alle narici, allora aveva provato a coprirsi il naso con la giacca, ma il tanfo continuava a riempirle la testa e aveva cominciato a tremare, a sudare, provava a non pensarci ma l’odore, il pensiero dell’odore, i lamenti degli altri le facevano venire i conati. Il suo stomaco ormai viveva di vita propria e si ribellava contro ciò che gli veniva fatto subire, mentre la sua mente non rispondeva più. S’è messa a vomitare, anche gli altri attorno a lei, tutti si vomitavano addosso. Per la prima volta s’era rassegnata al puzzo, stava così male che non le importava nemmeno più di restare pulita.
Soffrivano a tal punto che qualcuno non aveva resistito. I più vecchi e i più giovani si erano sentiti sempre peggio, e alcuni di loro non si erano svegliati più. Il capitano aveva fatto gettare a mare i corpi.
Lei non aveva mai visto un morto.
Poi una donna aveva partorito sulla barca, e Hawa aveva potuto vedere il bambino.
Tutto questo succedeva prima di arrivare in Europa, dove tutto sarebbe andato meglio.

Delphine Coulin

Delphine Coulin è scrittrice e cineasta. I suoi libri – Les Traces (2004), Une seconde de plus (2006), Les Mille-Vies (2008), Samba pour la France (2011) e Voir du pays (2013) – sono tradotti in una decina di lingue straniere. Da Samba pour la France, pubblicato in Italia da Rizzoli, nel 2015 è stato tratto un film di successo.

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